Le autrici di Lingua Madre

Due infanzie per Nambena Quante storie!

Scritto da Segreteria il 17 Luglio 2020

Dai racconti delle autrici CLM più fiabeschi e fantastici, una serie di letture pensate per le/i giovani lettrici/lettori.

Jacqueline Tema [Madagascar]

DUE INFANZIE PER NAMBENA

a Navo e a Fiorella

Sono nata in Madagascar trentacinque anni fa, sono “rinata” d’incanto a Torino ventitré anni fa.
Ho avuto un destino singolare. Ho vissuto due infanzie diverse e distinte, in due terre lontane tra loro, con due famiglie, due mamme, due nomi: Jacqueline, il nome anagrafico, Nambena, il nome malgascio.
Anche quest’anno sono tornata a Shakalama, il mio villaggio d’origine nel sud dell’isola, dove vive Navo, la mia mamma, una donna alta, bella, con due grandi occhi splendenti. Mio padre invece era piccolo di statura, ma un grande uomo, dalla comunità considerato il più saggio. Se pur combinato dai genitori, il loro è stato un matrimonio d’amore: mamma aveva dodici anni, papà venti.
Dopo tre maschi, sono stata la prima bambina, desiderata per quasi vent’anni. Quando sono nata mi hanno dato un nome dolcissimo, a ricordo della loro attesa: Nambena, in malgascio “la Ben Arrivata”.
Purtroppo sul certificato di nascita sono stata registrata solo come Jacqueline, nella lingua dei colonizzatori francesi. Ma Nambena ha per me un significato profondo, segreto e per farmi coraggio spesso mi ripeto: “Ben arrivata, Nambena!”.
Vivo ormai a Torino da tanti anni, ma il pensiero torna spesso a Shakalama, alle case di terra a due piani, ai giochi e ai bagni con le amiche nel vicino fiume Vokadabo, ai pranzi all’aperto con la mia famiglia nei campi coltivati a riso, manioca, patate dolci e arachidi. Tutto era magico: le storie che mamma e papà raccontavano, la loro visione animista della vita, la natura intorno a me.
Sono cresciuta libera e felice. Ormai grandicella, mi piaceva andare al mercato di Ilakaka con le amiche più grandi. Partivamo all’alba, camminavamo un giorno intero, la notte dormivamo in un villaggio a metà strada. All’alba del giorno dopo, con abiti nuovi, con le trecce appena fatte e le gambe luccicanti di olio di mandorle, proseguivamo verso il mercato come verso una festa: ci divertivamo tanto a fare… Le donne!
Ricordo bene il sole di quelle albe. Sorgeva immenso tra gli altipiani, una grande palla rossa, il suo colore ci avvolgeva completamente. Lo fissavo incantata, come se sapessi di doverne conservare a lungo il ricordo.
Bruscamente sono stata portata lontano da quel sole e da quel mondo: mentre le mie amiche si avviavano davvero alla vita di donne, io mi avviavo verso una seconda infanzia.
Sono venuta in Italia dal Madagascar a dodici anni e tutto mi sembra ancora un sogno. Nulla sapevo del mondo, di popoli e paesi diversi. Ero completamente analfabeta, perché a Shakalama da anni non c’era più la scuola. Nel 1960, con l’indipendenza dalla Francia, in Madagascar fu bandito il francese, lingua ufficiale, e tutti i libri furono bruciati. Se ne stamparono di nuovi in lingua malgascia, ma il popolo, abituato alla tradizione orale, non sapeva leggere e ovunque si era diffuso l’analfabetismo. Solo chi era nato durante la colonizzazione aveva potuto studiare nelle scuole francesi. Mio fratello Mosa, infatti, ha frequentato prima la scuola del villaggio, poi le medie e il liceo a Fianarantsoa, a più di cento chilometri da casa.
Il filo che collega Shakalama a Torino è stato tessuto da una suora missionaria, stimata e rispettata nel villaggio, dove con le sue cure per anni aveva salvato molte vite e sognava di realizzare un dispensario. Per questo aveva deciso di accompagnare in Italia alcune ragazze malgasce da istruire come infermiere, sperando che accettassero anche di farsi suore.
Una volta ritornate al villaggio avrebbero dovuto collaborare con lei nel dispensario, del quale Mosa, che ormai studiava medicina a Torino, sarebbe diventato il medico responsabile.
Non sapevo che quel progetto riguardava proprio me e avrebbe cambiato per sempre la mia vita.
La decisione della mia partenza per Torino fu improvvisa. Nei pochi giorni in cui la suora e Mosa erano tornati al villaggio dall’Italia per le vacanze, papà e mamma diedero il loro consenso: erano sereni e sicuri che sarei stata in buone mani.


Era il settembre 1987. Di quei giorni e di quel lungo viaggio ho ricordi sbiaditi. Rivedo come in sogno la piccola Nambena, nuovi i primi sandali ai piedi, nuovi i vestiti colorati e leggeri, arrivata in un mondo nuovo, incantata dalla grande città, stupita da una Torino invasa da soli bianchi.
Per la prima volta sentivo freddo. Pioveva.
Mio fratello mi comprò subito un paio di scarpe da ginnastica, ma i piedini, da sempre scalzi, traballavano. Camminavo a fatica e Mosa rideva.
All’inizio tutto mi sembrò bello, sorprendente e non vedevo l’ora di raccontare tante meraviglie alle amiche del villaggio, dove pensavo di tornare presto.
Per circa tre mesi ho vissuto a casa della suora, mentre mio fratello viveva per conto suo. Passavo le giornate in solitudine; giornate brutte, fredde, piovose. Dalla finestra vedevo nella nebbia un sole piccolo e pallido, non più la mia grande palla di fuoco.
Ero impaurita dall’insistenza della suora che voleva a tutti i costi insegnarmi a parlare, scrivere, pregare in italiano. Recitavo l’Ave Maria, ma le parole mi risuonavano nel cervello, creando gran confusione. Non mi sentivo amata, me ne stavo silenziosa, triste, isolata da tutti. Piangere era l’unico sollievo.
Per consolarmi Mosa mi aveva comprato una bella bambola bianca, diversa dalle bamboline che plasmavo con la creta nera del fiume: piccole, sottili, con gli occhi di pietre colorate e i vestitini di foglie secche, belle anche loro ma diverse, come diversa mi sentivo io.
Mentre i rapporti con la suora peggioravano, Mosa cercava una via d’uscita.
Chiese aiuto ad una cara amica, Silvia, sua compagna di corso all’università. In breve, grazie all’intervento del Tribunale per i minori, mi trasferii a casa di Corrado e Fiorella, i genitori di Silvia.
Era il 9 dicembre 1987. Si avvicinava il Natale e m’incantavano le luminarie della città. In tutta quella luce mi sembrò davvero di rinascere. Del mio ingresso nella nuova casa ricordo la calda accoglienza della famiglia e una bambola vestita di rosa da cui nessuno riuscì più a staccarmi.
I primi mesi sono stati difficili. Fiorella stava con me tutto il giorno: io parlavo a gesti, lei capiva al volo e m’insegnava i nomi degli oggetti sui libri dell’infanzia dei suoi figli. In aprile venni accolta alla scuola elementare “Dogliotti”, nella quinta C della maestra Rosy, che non ho mai dimenticato. A giugno avevo imparato a leggere, a scrivere, e parlavo italiano come i miei compagni di classe. Fiorella veniva a scuola con me per aiutarmi e non farmi sentire sola. Ed io sentivo di essere con un’altra mamma, piena di amore e pazienza.
Ogni tanto però piangevo, apparentemente senza motivo, perché la mia testa era ancora in Madagascar. Ma quando uscivamo insieme mi attaccavo al suo braccio, come se fossi stata da sempre la sua bambina, nata già grande, a dodici anni, senza che lei mi avesse né pensata, né aspettata. Anche per lei io ero davvero Nambena, “la Ben Arrivata”!
Sostenuta da questa straordinaria famiglia e da tanti nuovi amici, pian piano Nambena, è arrivata davvero lontano, fino al diploma. Da dieci anni ormai lavoro come educatrice in un asilo nido alla periferia di Torino e mi sento del tutto partecipe della realtà italiana.
Avevo già colto i primi segni di questo grande mutamento quando, a vent’anni, ero tornata al villaggio per il funerale di mio padre. Tutti piangevano, anche Mosa. Io no. Mi sentivo assordata e sconvolta da quel lutto collettivo: stavo seduta in disparte a fissare la mia gente e percepivo una distanza. Ho pianto dopo, da sola, per tanto tempo.
Tutti erano colpiti dal mio ormai incerto malgascio, dal mio modo di camminare, dai miei pantaloni… E fu chiaro a loro e a me che l’incontro con la vita e la cultura italiana mi stava cambiando, che il progetto di ritorno nella mia terra di origine si allontanava.
Ora, a distanza di anni, pur nella tensione dei sentimenti di nostalgia e di appartenenza al mio popolo, sento in me la forza di non tornare più indietro, come desideravo un tempo. Sono fiera dell’autonomia che ho conquistato anche attraverso la fatica dell’integrazione, i pregiudizi, gli ostacoli. Finalmente sono riuscita ad accettare e a capire i miei due vissuti e li ho messi insieme per costruire qualcosa di positivo per me, per le persone che mi stanno vicino, e forse anche per quelle lontane. I ricordi della mia terra, della mia gente, delle mie due infanzie mi accompagnano, mi aiutano nel mio lavoro con i piccoli e con i grandi, mi avvicinano a chi fa più fatica.
Alcuni genitori mostrano curiosità per la mia pelle scura, forse considerano gli stranieri, ed in particolare le donne, adatti solo ai lavori più umili. Invece la società sta cambiando, pur tra molte contraddizioni. Io resto ottimista: nessuno potrà fermare questo nuovo, coloratissimo mondo.
Educando i piccoli mi sento parte di questa grande trasformazione e mi rincuorano le parole di una mamma: «Sono contenta che la mia bimba si abitui a convivere con la diversità».
Per questo ogni giorno, incontrando i bambini, ripeto nel cuore: «Ben arrivata, Nambena, tra voi! E ben arrivati anche voi!».

 

L’illustrazione che accompagna il racconto è contenuta nel volume “Due infanzie per Nambena e altri racconti” realizzato a seguito del laboratorio artistico MIRAcconto illustrando condotto dalle illustratrici Annalisa Sanmartino e Giulia Torelli dell’Associazione BUM Ill&Art e promosso in collaborazione con le Biblioteche Civiche Torinesi ed il contributo della Youth Bank Mirafiori.