Le autrici di Lingua Madre

"Il segno sul cuore" A colloquio con Noemi Cuffia

Scritto da Segreteria il 19 Giugno 2014

Apriamo un nuovo spazio di dialogo e confronto, a disposizione di tutte le autrici, le amiche e gli amici del Concorso Lingua Madre (ma non solo!), a colloquio diretto con la giovane bookblogger e scrittrice Noemi Cuffia, autrice del bellissimo testo intitolato “Il segno sul cuore”. Noemi ha voluto condividere alcune sue riflessioni ed esperienze traendo spunto dai racconti del Concorso Lingua Madre e ci teniamo a ringraziarla per questo preziosissimo contributo.
Pubblichiamo quindi di seguito questo intenso e autentico racconto, invitando tutte e tutti voi a commentare, a partecipare attivamente con le vostre personali riflessioni e considerazioni.
Ancora grazie a Noemi da tutte noi!

IL SEGNO SUL CUORE

Amo vestirmi di parole

Più il tempo passa, più si accumulano esperienze. Esperienze che, nella vita di una lettrice appassionata di storie come me, spesso diventano sinonimi di parole capaci di suscitare particolari emozioni. E tra queste esperienze, queste parole che costituiscono frasi, che scaturiscono emozioni, alcune si rivelano più significative di altre. Attecchiscono. Restano indelebili nella memoria, come ricordi veri e propri. Ricordi di parole. Segni che in un certo senso si incidono anche fisicamente da qualche parte del corpo, a essere romantici direi proprio che si formano sul cuore. Sono parole scelte con sapienza, e insieme, ne sono convinta, che nascono anche da una forma di grazia divina.
Credo, ma non sono la sola a pensarlo, che alcuni testi della letteratura siano così belli da essere stati ispirati senza ombra di dubbio da un’energia superiore, per chi ci crede: provengono da Dio. Da una volontà più grande che in un certo senso detta al tramite che in quel momento è una mano, una penna, una tastiera, una mente illuminata, messaggi o suggestioni o narrazioni utili, importanti per noi, per chi legge e, magicamente, si riconosce. Questo meccanismo è universale, e imperscrutabile. E, contemporaneamente, molto esatto e frutto di regole ben precise di sapienza e bellezza. Non riesco a trovare similitudine più calzante di quella dell’amore: ci sono frasi, paragrafi, di cui, se non a prima vista, di certo a una seconda lettura, semplicemente ci innamoriamo. E spesso, questo genere di amori sono duraturi, e arricchiscono, riempiono il cuore di buone vibrazioni ed energie.

            A questo genere di esperienze, ovvero di frasi, di segni meravigliosamente allineati e in perfetta armonia gli uni con gli altri, rientra per me un paragrafo di un racconto contenuto nell’edizione Duemiladodici di Lingua Madre. Un incipit, nella fattispecie. Che è questo:

Amo vestirmi di parole – indosso metafore, allegoria, ironia – ma da quando sei entrato nella mia vita, amore mio, il mio soprabito preferito è un mantello di seta color tramonto infuocato, fatto di silenzio. Le sue soffici pieghe permettono ai miei pensieri – pensieri di donna, di migrante, di madre – di fluire in un caldo ventre liquido, dove il linguaggio si scioglie fino a diventare brodo primordiale e dove l’unico rumore è il sorriso del Creatore mentre srotola il suo contratto primordiale con l’umanità.

            L’impatto di queste parole è – difficile negarlo – di indiscussa bellezza e potenza, di poesia. Si tratta delle prime righe di Ascoltare il silenzio, un racconto della scrittrice indiana Laila Wadia. Un racconto che si è incastonato nel mio cervello come una vivida immagine di intensità rara. E, davvero, di tanto in tanto, dopo averlo letto la prima volta, è spesso ritornato a popolare i miei pensieri, magari all’improvviso, mentre ero impegnata nelle più diverse attività. Quel “mantello di silenzio”, quell’ascolto del silenzio del titolo mi visitavano come cari amici che ti vengono a trovare, come qualcosa che risuonava conosciuto e familiare dentro di me, anche se non ne capivo le ragioni.

            Mi colpiva il contrasto tra questa voce sicura e ispirata che, sulle prime, dichiara di “vestirsi di parole” e che poi invece per qualche strano motivo si avvolge in un mantello di silenzio. Perché? E perché addirittura questo mantello è “il suo preferito”? E chi è questo “amore mio” che la porta a tanto, che la induce a preferire il silenzio? Volevo capire.

            Di sicuro, era scattata in me subito l’identificazione. Come scrittrice, anche io al mattino mi sveglio e prima ancora di bere il caffè, mi “vesto di parole”, si può dire che non faccia (quasi) altro nella mia vita. Ho scelto le parole. A mio rischio e pericolo. Di parole mi abbiglio, mi nutro, mi circondo. Parole e pensieri. Ed è una scelta di campo, dalla quale non si torna mai indietro. Ma al tempo stesso, ho riconosciuto quell’altra sensazione, misteriosamente correlata alla parola “amore”, relativa al silenzio.

            Parole. Silenzio. Amore.

            Questo racconto in effetti ruota su questi tre cardini. Strettamente uniti tra loro. Si tratta di un racconto strutturato, lo si capisce da subito, come una lettera. Una lettera indirizzata a un amore incondizionato e appena nato. A un bambino, a un figlio. Parole. Silenzio. Amore. E madre. Ecco, qualcosa comincia a chiarirsi.

Nel silenzio posso spogliarmi della pesante armatura

             Il racconto prosegue con questa profonda presa di coscienza: nel silenzio ci si spoglia di un’armatura. Ci si svela per quel che si è, inermi ma per questo forti di una consapevolezza maggiore rispetto all’assordante lavorio delle parole. A scrivere è dunque una giovane mamma di origini indiane in dialogo privato e, per così dire, “mentale” con il proprio bimbo appena venuto al mondo. Scopre e culla una dimensione unica e irripetibile, che segue di poco quella della gravidanza, e che ancora risente della comunicazione esclusiva che solo una madre può instaurare con il proprio neonato. In questa tranquillità, in questo candore così vicino alla vera essenza delle cose, la scrittrice riesce in effetti a spogliarsi di tutto e restare in osservazione dell’incanto. A questo punto, la voce narrante è in grado di riflettere. Ed è proprio come se la maternità, e il contatto anche fisico – non lo sappiamo per certo ma sembra quasi come se l’autrice scrivesse proprio cullando, o addirittura allattando il bambino, o per lo meno questa è la suggestione che ne ho ricavato io  –   con il figlio liberassero tali e tante intuizioni creative dal lasciar davvero sbalorditi.

            A partire da come è nato il suo amore con Prakash, il marito, passando attraverso il racconto, in favore del bimbo e naturalmente nostro di lettori, delle controversie che la coppia ha dovuto superare (il rigido sistema delle caste, una suocera contraria all’unione e altre avversità), la scrittrice arriva al punto: la decisione di emigrare. Il punto perché, da quel momento, sulla base già di una “poligamia linguistica” che contraddistingue la madrepatria, dovrà affrontare un linguaggio nuovo con tutto il portato di condizionamenti e contrasti che questo comporta. Fino all’estremizzazione del nucleo del “problema della lingua”, che è la scelta di come comunicare con il figlio. Il linguaggio, lo si scopre in quasi tutti i racconti di tutte le edizioni di Lingua Madre che ho potuto leggere io, è uno dei temi più sentiti e forti per tutte le scrittrici che decidono di narrare la propria esperienza di migranti. Ed è in effetti un tema sostanziale, attraverso cui si svelano tutti gli altri.

            Come comunicare? Come esprimersi?

            Tra le altre autrici, Laila Wadia mi è parsa tra le più fortunate e privilegiate. La sua scrittura è elegante, professionale: è il suo mestiere, e si sente. La decisione di trasferirsi in Italia, come emerge nel racconto, è però anche nel suo caso forzata e per certi versi drammatica, ma tutto sommato più strutturata e felice di quella di moltissime altre autrici, senz’altro tra quelle destinate agli esiti più favorevoli. Prakash lavora alla Sissa, la Scuola di Matematica Avanzata a Trieste, ed è in questa città che la scrittrice si trova a costruire per sé e per la sua piccola famiglia nascente una nuova e più complessa identità, riconfigurando tutto, dal suo lavoro di giornalista e scrittrice, al suo rapporto con il territorio, con gli spazi cittadini, le abitudini, addirittura il cibo, istanza attraverso cui passa in effetti molta parte della costruzione di sé. Ed è avvincente ascoltare questa voce che articola le scelte. Che scopre le esigenze. Tutto quello che non trova spazio nel mio petto è superfluo, afferma. Rendendosi conto che è proprio lì, nel petto, nel cuore, che comincia a prendere posto l’India, la sua terra. Rivela di sentirne il battito del cuore e di sentirla come parte di sé proprio grazie alla distanza. Distanza che le impone d’altro canto di, letteralmente, piantare il primo seme di integrazione, ovvero il suo bambino.  Sarai figlio mio e di tuo padre, ma anche di questo suolo.

Figlia di questo suolo

           A soli due anni! Questo è stato il primo pensiero leggendo queste parole. L’età in cui mia madre è arrivata a Torino dalla Sicilia, dal cuore di una Palermo che nella mia mente è bellissima, profumata, ma anche senza contorni, inafferrabile, buia. Probabilmente mano nella mano delle sorelline, spaesata, come tutti i bambini a quell’età. Chissà cosa deve aver pensato, durante quel viaggio. Chissà che mondo alternativo, deve essersi costruita. Si dice che gli scrittori si inventino mondi paralleli per sfuggire a quello vero, per migliorarlo o comunque crearne uno tutto per sé, dove ci sia uno spazio per esistere. Chissà lei, mia madre bambina, quali scenari rassicuranti si sarà costruita per gestire le emozioni di quel tragitto. L’immigrazione italiana degli anni Cinquanta è stata massiccia. Si scherza, oggi nel 2014, a Torino, perché di “veri torinesi” non ne esistono più. Frequentemente, esistono famiglie “miste”, come la mia: innesti tra autoctoni e meridionali.

            Chissà perché a me è toccata proprio la Sicilia? Penso sempre. Perché? E poi mi chiedo, senza filtri, senza retorica: perché proprio lei? Le madri non si scelgono, questo è risaputo. Ma si amano, e io l’ho fatto per tanto tempo in modo istintivo e totalizzante.

            Ora, in età adulta, rivedo però in lei tutte le mie mancanze, le frane del territorio su cui lei non ha potuto poggiare i piedi, e quindi nemmeno io, e la difficoltà violenta del radicamento in un’altra terra: non esagero, tra sud Italia e nord, in quegli anni, ma anche ora, ci sono differenze che assomigliano ad abissi. Incolmabili, temo, irrisolvibili. E allora la mia mente va al Glossario – Lessico della differenza, a cura di Aida Ribero. Vedi alla voce: autostima. 

Se desideriamo essere sane e complete, o donne intere, non dobbiamo perdere di vista la nostra terra, il nostro centro, il nostro desiderio. E il desiderio si riconosce imparando ad ascoltare il nostro ‘sentire’.

Ecco. Dove tutto ha avuto origine. Provo a sentire: ma in risposta ricevo ancora quel tanto misterioso silenzio. Quello che descrive anche Laila Wadia. Un vuoto, nel mio caso. Una Sicilia di cui non saprò mai nulla. O per meglio dire: un luogo dove tutto ha avuto non-origine, per il mio destino. Una mancanza profonda, integrale, spietata di riconoscimento delle mie radici materne. Alle prese con questo scritto, ad esempio, sulla migrazione di mia madre, su quella fetta sostanziale di vita sua, sono di colpo spiazzata: io non so nulla. Il valore della scrittura allora è anche questo: strumento di elezione per scrutare un vuoto, e provare a osservarlo senza giudizio.

            Tutto quel che so in effetti è che lei non sa nulla. Non ricorda, ha rimosso qualsiasi esperienza. Sbaragliata dall’aggrapparsi alla vita di una bambina piccola, sola, dal collegio dove ha trascorso con le sorelle ben cinque lunghissimi anni, al mistero di come dopo ce l’abbia fatta lo stesso. A studiare, a lavorare. La perdita del padre nell’adolescenza, una solitudine che si è trasformata in collettività, per poi scoprire che alla base di tutto c’era quel deserto di radici, estirpate in maniera aggressiva. Ecco cosa sono chiamata a fare, lo capisco scrivendo, ovvero sentire il profondo, insanabile lutto delle mie radici. E questa chiamata delle vita (tutti ne abbiamo una) per me si è trasformata in un desiderio forte di comunicare. Di raccontare, di inventare a mia volta quel mondo che non c’è, ma che pure ha spazio per me, e mi protegge. Così è nato il mio desiderio di scrivere, di affacciarmi alla letteratura, e alla rete. Alla scrittura sul web. Cos’è in fondo la rete: un iper spazio, per me, dove metterle queste radici. Dove esistere. Per alcuni periodi della mia esistenza, la realtà è stata tanto solitaria e povera, quanto è stata invece ricca e prolifera la mia vita in rete. La rete ha mille valenze. Per me per la maggior parte positive. Una rete di parole, che ha riempito davvero per molto tempo il mio senso di solitudine. E questo è un patrimonio vero, da conservare e tramandare.

            Le buone pratiche del web, le sane forme di socializzazione online sono un bene del nostro tempo. E vanno coltivate. Una sola remora: la rete in quanto tale molto semplicemente può catturare anche quando non lo si vuole. La vita vera è sempre la prima cosa, e tutto quello che ho imparato io dalla mia esperienza di blogger, scrittrice e donna è questo: la rete è insana se non lascia margini di uscita ed entrata. Ci deve essere una porta e una chiave sempre a disposizione. Tutto ciò che siamo in rete ha valore solo se è utile a costruire una vita vera, emozioni vere, legami veri e memorie credibili.

Nella lingua dell’amore

            Il passaggio successivo, e forse il più suggestivo, della narrazione si costruisce attorno a una semplice domanda. L’autrice, nel dialogare col bimbo, ricorda i momenti che hanno preceduto la sua nascita, e si concentra appunto su una domanda che l’ostetrica del consultorio, al corso preparto, rivolge alle partecipanti. “In che lingua vi rivolgerete al figlio che portate dentro di voi?”.

“Nella lingua dell’amore” risponde la scrittrice. Tra lo stupore di tutti.

            Scatta un piccolo dibattito tra le future mamme: se sia giusto o meno dialogare nella propria “lingua madre” nel caso delle donne straniere. Mentre le donne autoctone non si erano mai poste il problema. Il problema… Pensavo leggendo. E prendevo man mano sempre più contatto con me stessa, con la mia vita, con la mia, di lingua, con le scelte della mia famiglia, qualche volta anche dettate dal caso. Il motivo del mio attaccamento a questo racconto si faceva sempre più chiaro.

            Alcune coppie fanno figli per colmare la solitudine, per riempire i silenzi. Io, la solitudine la colmo con le parole, con la poesia, con i personaggi a cui do vita nei miei racconti. Io ti ho voluto perché il mio ventre sentiva la tua mancanza, perché il mio sangue mormorava il tuo nome, giorno e notte.

            In effetti, c’è sempre un motivo per cui nascono i bambini. Non saprei dire il mio. Il motivo per cui i miei genitori davvero hanno deciso di mettermi al mondo. Ma di sicuro ho da dire qualcosa sul linguaggio, e sulla lingua specifica di mia madre. Una lingua che mi azzardo a definire “liquida”, cangiante, mutevole, inafferrabile, continuamente diversa, nuova, fonte delle più diverse e complesse emozioni. Una lingua che ha finito per corrispondere in alcuni momenti con il silenzio, con l’assenza.

            Sono il frutto di una peculiare forma di migrazione, che è quella Sud-Nord dell’Italia degli anni Cinquanta. Mia madre è nata a Palermo, ma all’età di due anni circa si è trasferita a Torino. E, una ventina di anni più tardi, ha incontrato mio padre, torinese di nascita, con radici canavesane! Tralasciando i dati biografici, devo riscontrare però che loro sono proprio come il giorno e la notte. Il colpo d’occhio è interessante. Lei scura, lui chiaro. Lei parte di una famiglia numerosa, lui figlio unico. Lei all’apparenza esuberante, lui all’apparenza timido. Gli stereotipi si annoverano tutti. E io sono un classico esempio di meticcio. Seppure all’interno dei confini della mia nazione. Dentro di me scorrono però due fiumi uguali e opposti. Quello del sangue siciliano, oltre che della specifica persona che è mia madre, e quello del sangue piemontese, che si somma al peculiare carattere di mio padre.

            Tuttavia, e forse questo ha a che fare con il racconto di  Laila Wadia, per molti anni, non sono stata in contatto con questa peculiarità della mia vita. Con questa condizione effettiva di “mezza immigrata” di seconda generazione. Per anni non ho capito cosa volesse dire. Non ho ascoltato il mio cuore, non ne ho sentito i richiami. Se mia nonna materna aveva letto con i suoi occhi, e penso sulla sua pelle, i tristemente noti cartelli “Non si affitta ai meridionali”, a me non era toccata la stessa sorte. Sia per evoluzione intrinseca del fenomeno migratorio, sia per la inevitabile “protezione” derivata dall’altro ramo della famiglia, a suo modo più radicato nel territorio, quella piemontese. Eppure.

Conoscerai Leopardi meglio di Tagore            

      Prosegue così Ascoltare il silenzio, con una discesa ulteriore in profondità, come se la scrittrice volesse, nei limiti del possibile, inventariare tutte le evenienze della vita futura del suo piccolo. Fantasticare sulle variabili, elencare le sfaccettature, osservarle, nominarle, un po’ come a mettere ordine in qualcosa che, per sua natura, è caotico e difficile da gestire. Si concentra quindi sui gusti, sui suoni che il bimbo dovrà sentire, sugli studi che gli toccherà di compiere. Ed è come se questa giovane mamma volesse farsi leggera, e lo dice: per non farti sentire il mio peso. Per renderti felice e far sì che tu non debba vergognarti di avere una mamma diversa.

            Ora sì che capisco mia madre. Il suo sforzo di “sparire”. Di tenere a bada le proprie origini sicule, di venire meno in quanto donna (a ben pensarci, più che donna, ragazza molto più giovane di me mentre scrivo, e non sono ancora madre) “siciliana”. Un tentativo che si rivelava vano quando invece queste misteriose origini le sfuggivano in una parola magari in dialetto che mutuava senza nemmeno rendersene conto da sua madre, mia nonna; una cadenza che le scappava quando si rilassava al telefono, o persino quando si arrabbiava con me. Una parola magari buffa, una parola sanguigna che alle mie orecchie risultava incomprensibile e conturbante, che andava a sbattere come una pallina del flipper tra le pareti della mia identità che invece si strutturava come perfettamente integrata, aderente al territorio torinese. Una parola “segreta”, sulla quale sospendevo ogni giudizio, tanto misteriosa quanto inevitabile: era la lingua di mia madre, andava bene così.

            Il contatto con la sua terra, la sua isola lontana (ai suoi occhi sconosciuta, perché non ci sarebbe tornata mai) riemergeva di colpo in certi pomeriggi che sono rimasti indelebili nella mia memoria. Pomeriggi durante i quali la vedevo tornare a casa e aprire fantomatici sacchetti di carta da cui spuntavano arancini oppure dolci tipici cui non sapevo dare un nome, che non avevo idea, né mai l’avrò, di dove andasse a scovare. Senz’altro, non dico che la vedessi felice, poiché quel legame per lei (come per me) era molto controverso e doloroso. Esattamente come per la protagonista del racconto, anche mia madre risentiva di molti ostacoli interni alla famiglia del marito (mio padre). Nuora e suocera per molto tempo non sono andate d’accordo. Le mie due anime, le mie due lingue si facevano la guerra tra di loro. Amore e odio. Il giorno e la notte. Mia madre lottava, subiva e aggrediva contemporaneamente.  E quando di colpo emergevano quelle parole, quell’accento così suo la vedevo esprimere inevitabilmente una parte di sé, una parte significativa. Quando ero bambina quella terra, la Sicilia, per me era un qualcosa di semisconosciuto, un argomento ben poco trattato o, per meglio dire, ben poco digerito. Restava nell’aria, in quei cibi innocentemente “clandestini”, sparpagliata nella rare ma intensissime visite-parenti a casa di mia nonna che si colmavano di numerosi zii e cugini in grado di riempire la stanza di parole, voci, emozioni di ogni tipo. Come il Natale, simbolo specifico per me dell’alternanza delle correnti emotive e culturali che abitano il mio cuore. La Vigilia trascorsa dalla nonna (vedova fin da giovane e in lutto perenne) siciliana con la legione di zii e cugini: la definirei una notte rossa, se dovessi darle un colore. E l’indomani mattina dai nonni piemontesi: in cinque a tavola, in silenzio quasi, con gli agnolotti e la Barbera. E io a tornare a essere l’unica bambina di casa, senza più il confronto con i cuginetti. A ripensarci oggi, non dev’essere stato semplice gestire tutte quelle articolazioni differenti del concetto di famiglia, ma sul momento mi pareva tutto normale, era la ma vita, non c’era molto da aggiungere.

A fine pasto prenderò un caffè

Scrive ancora Laila Wadia. E continua: al posto di masticare dei semi di finocchio zuccherati. Per concludere: non sarà un sacrificio, sarà un’evoluzione. Anche il linguaggio di mia mamma si è evoluto nel senso dell’integrazione. Nel tempo, quelle inflessioni che di tanto in tanto facevano irruzione nei nostri dialoghi, nelle sue chiacchierate con le sorelle, o nei litigi, sono scomparsi lentamente. Di colpo, mi sono resa conto che mia mamma era diventata una torinese integrale, e integrata. Era una questione di suoni: ora non si sentiva più quel retrogusto, quel controcanto siculo. Quegli intercalare, scomparsi: ero figlia di torinesi, e le loro parole erano lì a dimostrarlo. Le discussioni, le fratture, e difficoltà continuavano a susseguirsi, ma la “meridionalità” segreta, che in qualche modo toccava tenere sottotraccia, quasi nascosta, come un’atavica onta, era svanita, senza lasciare impronte.

            Quei dolcini, proprio come i semi di finocchio zuccherati del racconto, non sarebbero più apparsi alla nostra tavola. In favore di dessert più universali, senza radici. Il problema dell’identità, esplorato in tutti i racconti delle autrici di Lingua Madre, è centrale anche per la mia vita. Ne sono sempre andata in cerca, e questo è normale. Ma ho sempre riconosciuto anche che questa naturale esigenza in me, più che, ad esempio, nei comportamenti dei miei amici completamente autoctoni, era più marcata. Altra vita sarebbe stata quella di una figlia di una coppia meridionale al cento per cento. In quel caso, paradossalmente, è più semplice. Ci si impegna per integrarsi tutti insieme. Nel caso invece delle coppie miste, la stabilità emotiva dei figli è notoriamente più a rischio.

            La sera del ventiquattro dicembre ero il cucciolo di una nidiata di bambini e ragazzini impegnati in frenetici giochi senza fine, ero la figlia di una ragazza in perenne lite con la madre e i fratelli, che però di colpo si riappacificava ed erano esplosioni di risate. Ero scura di capelli, ero scatenata. Ma, al tempo stesso, ero anche la “torinese”. Una creatura misteriosa, ostile, “tirchia”, tremebonda e cresciuta “nella bambagia” senza sceglierlo, senza volerlo eppure sentendosi eternamente in colpa di esistere in quanto tale. Il mattino del venticinque ero l’unica figlia dell’unico figlio di una coppia di instancabili lavoratori di modeste origini ma ben radicati nel proprio territorio. Benché sotto la superficie nuotasse un mare di complessità, come accade in molte famiglie, l’apparenza di quel lato della famiglia era di quieto equilibrio, di una certa solidità, di calmo buonsenso. E allora diventavo la bambina per bene, tranquilla, che “dove la metti sta” e “ubbidiente”. Calma, disciplinata e sola. Ma al tempo stesso, ecco che il rovescio della medaglia mi trasformava nella piccola “napuli”, la figlia di “chila lì”, quella lì, la meridionale.

            Ma sappi che in me una sola cosa non potrà mai mutare: il mio silenzio. Il mio silenzio è, e non può che rimanere, orientale.

            Infine, tutti quei conflitti sono cessati. Diversi tipi di silenzio sono sopraggiunti. Tutti i nonni, che tiravano le redini della mia famiglia nucleare, sono morti. Lasciando posto a un vuoto assordante di esigenze contrapposte. Stremati, noi tre potevamo finalmente essere quello che non eravamo mai stati: una famiglia unita. Ed è stato a quel punto che è calato il più pesante dei silenzi. Dopo un ictus e un infarto, avvenuti poco dopo il decesso di mia nonna, mia madre è diventata afasica. Si è svegliata dal coma farmacologico con una lesione cerebrale proprio nell’area del linguaggio e, in seguito a quindici giorni di coma, non era più capace di pronunciare neanche una parola. Ero in casa con lei, quando si è sentita male. L’ho rianimata, mentre la chiamavo ripetutamente “mamma”. Lì, tra parentesi, ho capito l’importanza di quel nome: non la chiamavo mai così, ma sempre con piccoli e sciocchi soprannomi che di volta in volta inventavo per appellarmi a lei, come a mio padre: spesso erano coppie di soprannomi. Solo nell’attimo del pericolo, rischiando di perderla, ho capito davvero chi era, chi avrei voluto che fosse, per lo meno.
Mia madre. Una mamma, qualsiasi cosa ciò significava, nel giorno in cui ho pensato di perderla, non facevo che chiamarla. E lei mi guardava come da un abisso lontano, in un legame così frastagliato tra noi, che ancora sto cercando di comprendere e accettare in un lungo percorso di ricerca di quella famosa identità inafferrabile.

            Dopo il risveglio, è cominciata una nuova vita. Completamente diversa dalla precedente. Molto più dura e al tempo stesso molto più autentica. Dal silenzio, mia madre Mariella è passata a pronunciare un’unica parola. Cercare.

            Tutto era un gran cercare stupefatto. Nessuno naturalmente capiva nulla. Tra lei e il mondo si è creato lì per lì un muro altissimo di incomunicabilità. Tutti erano in imbarazzo, nessuno afferrava le sue elucubrazioni, le sue necessità. Tranne me, naturalmente. Che fingevo di capire tutto. Rasserenandola. Guardandomi, era come se dicesse: solo tu mi capisci. Solo tu sai cosa voglio dire. Cosa sto cercando. Chiaramente, ciò che cercava era un po’ di amore. Quello che non aveva mai avuto, che aveva comunque perduto per sempre con la scomparsa recente di quella sua madre così imperscrutabile, così lontana, così spietata. Solo io sapevo ascoltare il suo silenzio. Come nel racconto di Laila Wadia, orav mi era chiaro, lapalissiano: solo una figlia sa comprendere la lingua di sua madre.

            Poco dopo, a cercare, si è aggiunta la parola scrivere. Ed è stato lì che ho cominciato a capire che c’erano delle speranze, che c’era una via d’uscita. Man mano che aumentavano le parole, grazie a un massiccio lavoro di logopedia, tornavano anche le altre facoltà: camminare, sentire, ritornare alla vita.

            Toccava a me adesso insegnare a parlare a mia madre. Da figlia sono diventata mamma, e maestra di scuola, e infermiera, e amica e sorella. Sono diventata tutto quello che l’eterno femminino può dare a se stesso. Dimenticavo soltanto che quella cosa, quell’accudimento costante aveva un prezzo. E quel prezzo ero io. Stavo mettendo da parte la mia vita. Ero soltanto ormai la madre di mia madre. Inconcepibile, eppure così reale. Ho finito per vederci un destino, una condanna. Ma anche una benedizione.

            C’è da dire che ho fatto il mio dovere. Se tutte quelle energie messe nell’accudimento di mia madre le avessi impiegate nella ricerca dell’oro, oggi sarei milionaria, e sarei autonoma.

Scrivere

        Ho sempre scritto, fin da bambina. Ero una solitaria, mi piaceva compilare diari e quaderni, ed ero una gran sognatrice. Fantasie, immagini, voli pindarici: ne ero in balia. La mia vita mentale era intensa e vivace, conteneva tutte le mie paure e i miei desideri. Ma è stato a ridosso di quel periodo così difficile, in cui mi dividevo tra le visite di controllo di mia mamma e i suoi “compiti a casa” di logopedia, in cui ero rientrata a pieno titolo nel liquido amniotico, seppure a ruoli invertiti, a prendere sul serio quella mia vocazione.

            Prima, era una sorta di gioco, di vezzo, di posa, oltre che di esigenza spuria e sterile. Dopo, è diventata la mia vita. Bello o brutto che sia, al di là dei risultati, la scrittura ha cominciato a rappresentare il mio porto sicuro. E infatti, come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere. Poiché da quella vicenda così drammatica ne ho tirato fuori un racconto.

            Avevo sentito dire che la parola ha a che fare supremamente con la madre. Con il bisogno di ricondursi a lei, di sentirla vicina. Non potendo più dialogare con mia madre come prima, considerato che con me lei aveva instaurato negli anni un rapporto a dire poco simbiotico e di interdipendenza spiccata, sentivo comunque l’ossessiva esigenza di comunicare sempre, continuativamente, senza interruzioni.

            Il racconto su di lei si chiamava Cronaca, ed era stato pubblicato da una rivista importante, che si chiamava e si chiama ancora adesso: Nuovi Argomenti. Mi sentivo forte, quando avevo visto quelle parole stampate per la prima volta: mi sentivo potente, come se la vita mi stesse ricompensando per tutti quegli sforzi. Nel mentre, mia madre guariva e guariva. Articolava tutte le parole, scriveva frasi, componeva numeri telefonici, si iscriveva a Facebook. Sentivo di essere stata io a rimetterla al mondo, a partorirla, a restituirle la vita che l’ictus, giunto così presto, a soli cinquantadue anni, aveva minacciato di sottrarle.

            Mi sentivo Dio, un super eroe, e una signora scrittrice. “Non ho neanche trent’anni, e ho già esordito su una rivista del genere: hey, sono come Virginia Woolf!”

 Il segno sul muro

            Ed è proprio a lei, l’amatissima Virginia, che ho pensato, tra le mille altre cose, leggendo Ascoltare il silenzio di Laila Wadia. La scrittura di Laila non assomiglia a dire il vero per nulla a quella della illustre inglese, sono anime molto differenti, ma è nell’essenza del racconto che ci ho visto qualcosa, una scintilla di senso, che me la ricordava. I flussi di coscienza di Virginia Woolf sono costrutti sublimi e complessi, sono pura e divina letteratura senza tempo. Mentre il racconto di Laila è una lettera, dallo stile quasi al grado zero, con rare concessioni poetiche. Eppure, ecco che mi è tornato alla memoria uno dei racconti più delicati della Woolf, che mi ha fatto esclamare alla fine: eureka! Tutto mi tornava: Il segno sul muro[1].

            Sì, doveva essere già inverno, e avevamo appena preso il tè, quando alzai gli occhi e vidi per la prima volta il segno sul muro.

            Quel segno sul muro è un simbolo. E mi tocca svelare il finale per raccontarlo. La voce narrante si interroga per alcune pagine su cosa sia esattamente un segno che in lontananza si vede sul muro, e intanto divaga, alla maniera di Virginia Woolf, sciorinando, tra l’altro, frasi memorabili, che sono “esperienze”, come si diceva all’inizio, ad esempio:

            Che cosa sono i nostri uomini colti, se non i discendenti di streghe ed eremiti che accovacciati nelle grotte o nei boschi distillavano erbe, interrogavano i topiragno e trascrivevano il linguaggio delle stelle? E li onoriamo sempre meno, via via che le nostre superstizioni scemano e cresce in noi il rispetto per la bellezza e la forza della mente…

 S’interroga e s’interroga, fino a che non scopre di cosa si tratta. No, non è un chiodo, non è una macchia. È una chiocciola!

            La chiocciola è un simbolo di rara efficacia. Una creatura che porta con sé la sua casa, che è sempre di passaggio, e al tempo stesso stabile e concentrata. Una madre. E una figlia. Come il punto di contatto che si crea nel racconto di Laila Wadia. Come quello che, in un certo senso, è capitato a me. Che sono diventata una chiocciola, mio malgrado, ma ben contenta di avercela fatta. Nella concatenazione dei ricordi, mi è saltato alla mente un componimento meraviglioso di una delle mie poetesse preferite, l’americana Marianne Moore. Si intitola A una lumaca.[2] La riporto, per la sua perfezione, perché, per citare il titolo di una scrittrice italiana contemporanea che amo molto, Michela Murgia, “il mondo deve sapere” quanto è bella:

Se “la concentrazione è il primo dono dello stile”,
tu la possiedi. La contrattilità è una virtù,
così come la modestia è una virtù.
Non già l’acquisizione di una cosa qualsiasi
capace di adornare,
o la qualità incidentale che per avventura
si accompagni a qualcosa di ben detto,
non questo apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, “un metodo di conclusioni”;
“una conoscenza di princìpi”,
nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale.

            Mi pare che se qualche analogia si può ravvedere con i due racconti citati, questa consiste in un dialogo fitto e struggente con una creatura retrattile e misteriosa. Un neonato. Un segno sul muro che si rivela essere una chiocciola. Ma è anche un’altra la citazione da Marianne Moore che voglio riportare, in riferimento a questi temi. Si tratta di due versi di una poesia che, per coincidenza, si intitola Silenzio[3].

                     Il sentire più profondo si manifesta sempre nel silenzio;

            non nel silenzio, nella discrezione.

            Ed ecco che tutto torna. Il cerchio si chiude. Anzi, i cerchi concentrici della chiocciola si chiudono. Il sentire più profondo, quello di una madre verso il figlio o la figlia, fonte di vita, di nutrimento, di tutto il bene o il potenziale male del mondo, si manifesta nel silenzio. Ascoltare il silenzio allora è l’essenza ultima dell’esistenza, quella che conduce alle radici, oltre che il titolo del bellissimo racconto di Laila Wadia. Ma di un’altra, un’ultima, ulteriore, decisiva chiocciola mi tocca raccontare.

Half of what I say is meaningless but I say it just to reach you.

            John Lennon aveva un rapporto difficile con la madre. Fu la zia a crescerlo. Ma naturalmente questo abbandono avrebbe continuato a ossessionarlo fino alla fine dei suoi brevi giorni su questa terra. C’è una canzone sua bellissima. Se non se ne conosce l’origine, si potrebbe pensare a una canzone d’amore. E invece si tratta di una straziante, splendida dedica alla madre Julia. Metà di ciò che dico è privo di senso, recita quel verso. Ma lo dico solo per raggiungerti. Questa frase, fin dalle prime volte in cui l’ho ascoltata e compresa, mi aveva molto colpita. Durante quei messi terribili, in cui non facevo altro che occuparmi di mia madre, l’ho sentita davvero vicina, e mia, e mi si è incollata addosso come il più eloquente dei silenzi. I discorsi che facevamo lei e io, almeno per una buona metà, non avevano senso. L’afasia, anche quella meno grave, come poi si è rivelato per fortuna il caso di mia madre, ha come peculiarità quella di rubarsi le parole, modificarle, rimescolarle, triturarle, talvolta eliminarle del tutto dalla bocca e dalla gola dei pazienti che ne soffrono per le più diverse cause. Tutto rimane intatto: emozioni, memoria, capacità, desideri. Ma la parola no. La parola cambia. Ecco l’ennesima evoluzione della mia lingua-madre. Adesso era diventata una sfida, qualche volta anche una specie di gioco. Altre volte addirittura fonte di risate, perché lei stessa si rendeva conto degli “strafalcioni” che involontariamente le toccava di fare, e che pure la divertivano e ci regalavano momenti di leggerezza e qualche volta di parossistica commozione.

            Ma io volevo di più. Volevo raggiungerla, volevo arrivare a lei, a mia madre come era nella mia mente e nel mio cuore, forse volevo semplicemente crescere, e svincolarmi. Sostanzialmente cercavo un sinonimo dell’amore. E della sicurezza di cui, in quei tempi (ahimé non ancora conclusi) di precariato, di instabilità sociale, e di vulnerabilità si sentiva tanto la mancanza anche a un livello più generale.

            Volevo la mamma. Non saprei come altro esprimerlo con queste semplici parole. E siccome avevo trovato un metodo piuttosto efficace, che era quello di scrivere (racconti, ma anche i “compiti” di logopedia che svolgevamo insieme per ridefinire e ricostruire la lingua perduta) ora sentivo di poter fare di più, e meglio. Solo per raggiungerla. Per instaurare un dialogo profondo con lei. O con me. Che mi costringesse però anche a relazionarmi con il mondo. Con quel mondo dal quale mi stavo completamente isolando, in suo favore, in favore di mia madre, escludendo dalla mia vita quasi tutto il resto. Eppure sapevo che il resto, le persone, erano là fuori, a vivere, a costruire cose, legami, progetti, relazioni. Mentre io avevo una “missione” più grande, più coinvolgente che al tempo stesso cominciava a bloccarmi però nella mia evoluzione personale. Ero una lumaca, questo è vero, lenta e concentrata nel mio obiettivo, che in quel momento consisteva nell’aiutare mia madre a guarire. Ma ignara dei propri diritti, dei propri bisogni.

            La chiocciola però è anche il simbolo della rete e per una bizzarra coincidenza è stato proprio il web a tirarmi fuori dal guscio. A permettermi di uscire dalla simbiosi e di ipotizzare, spero, un futuro di autonomia. Autonomia: è una parola delicata, specie oggi. Tempi in cui la giovinezza si prolunga all’inverosimile ed è ancora esperienza comune doversi far aiutare dai genitori anche da adulti. In effetti, mentre mi occupavo di mia madre, era sempre lei, con il suo stipendio (benché fosse in mutua) a pagare i conti, insieme a mio padre. Ci si può dire adulti, individui completi se non si è in grado di pagare l’affitto da soli, eppure ci si ritrova a insegnare alla propria madre l’alfabeto, le addizioni e le sottrazioni?

            A questa domanda, non ho ancora trovato risposta, perché in quel processo di autonomizzazione, di ricerca della mia individualità, identità e stabilità economica, oltre che emotiva, sono ancora completamente dentro.

            Nel corso di quel periodo di accudimento stretto, matto e disperatissimo, però, non ero del tutto sola: ci eravamo rivolti a un centro specializzato in quel genere di disturbi. E un ottimo psicologo, che poi si è trasformato in un amico, mi aveva descritto quello che stavo vivendo, in quella specifica età (ventisei/ventisette anni) come un guado. Ero partita da una sponda, e mi toccava arrivare a nuoto dall’altra parte. Con la consapevolezza che indietro non si poteva tornare, ora dovevo spingere con tutte le mie forze per raggiungere la terraferma. Quell’immagine mi aveva illuminata, e da allora ci penso spesso. Non credo di essere ancora arrivata dall’altra parte, nonostante siano passati parecchi anni, ma è vero che ho trovato appiglio nella rete più vasta mai concepita: quella, appunto, del web.

 Mommy blogger

            Per un caso, o forse no, i primi blog che ho cominciato a leggere in quel periodo erano i cosiddetti “mommy blog”. Diari di bordo in rete redatti da madri in erba in cerca di contatti umani ma anche desiderose di raccontare al mondo la propria esperienza. Mi colpivano dritto al cuore. Mi appassionavo alle loro storie, alle loro emozioni, alle evoluzioni dei loro bambini, ai progressi.

            A ben pensarci, il racconto di Laila Wadia potrebbe stare in un blog. Riceverebbe moltissimi commenti immediati. Perché è questo il bello della rete: poter entrare in contatto istantaneo con il mondo, pur restando comodamente seduti in poltrona, niente di più niente di meno. Fare rete. Ecco quello di cui avevo bisogno. I motivi che invece mi spingevano a nutrirmi delle avventure di queste mamme li ho compresi più tardi.

            Il fatto è che ero terrorizzata. Un’esperienza comune è essere mamma. Ma fare da mamma alla propria madre non è poi così comune. E io mi sentivo in un certo senso “madre”. E questa è l prima ragione. Parallelamente, sentivo un grande vuoto. Desideravo essere madre, questo sì, ma di un figlio, come facevano quelle ragazze della rete. Era una situazione a dir poco delicata, la mia. E fino a quando ne facevo quell’uso, la rete era nociva per me. Perché, se è pur vero che passavo il tempo tra un impegno e l’altro, e imparavo molte cose, alimentavo però un circolo vizioso.

Alcune coppie fanno figli per colmare la solitudine. Riporto ancora una volta la frase del racconto di Laila Wadia perché è calzante. A quel punto, mi era nato il pensiero. E io? Avrò mai un bambino? Anche a questa domanda, mentre scrivo, non ho ancora dato una risposta. Ma le cose sono cambiate alla base. Ora che mi sono “gettata nella rete” della mia vita, le priorità sono mutate. Non c’è più solo mia madre al centro dei miei pensieri. Come non c’è più il figlio ideale che credevo di desiderare e che invece stavo utilizzando come “immagine positiva” solo per alleviare le mie sofferenze.

            Ho cominciato a mettere al centro di tutto la mia vita. I miei gusti, le mie passioni. Solo così, ho capito, posso essere una brava figlia, una figlia che abita il mondo, anziché soltanto i ristretti confini del proprio guscio. E solo così posso essere, se il destino lo decide, anche essere un giorno una brava mamma. Capace di parlare con la propria lingua al proprio bambino.

Il segno sul cuore

Così ho deciso di andare al cuore della faccenda. E di costruirmi la mia lingua personale. Non quella di mia madre, non quelle di mio padre. La mia, solo mia. E sono diventata una scrittrice. Ho lentamente smesso di leggere tutti i giorni i blog delle mamme, pur restandone una lettrice curiosa e sporadica, e ne ho aperto uno tutto mio. Di cosa? Non esistono i blog di figlie….I doughter-blog? Che ingiustizia dal momento che, sulla mia pelle, ho sperimentato che il mestiere più difficile del mondo è anche quello dei figli. Non solo quello di genitori.

            All’inizio di questo mio acerbo blog-senza-tema, confusa com’ero, non facevo che compilare  paginette virtuali con miei piccoli, timidissimi pensieri. Lo leggevano forse in cinque, le mie amiche, quando avevano tempo. Poi ho cominciato a raccontare, mettendole sottoforma di gag che mi parevano divertenti, le scene di vita che mi capitavano con mia mamma, le sue buffe evoluzioni linguistiche. Ma, ancora, tentavo di mettere lei, e non me stessa, al centro della mia vita.

            Poi, finalmente, ho capito. Ho ascoltato profondamente il mio cuore. E il mio silenzio. Per ritrovare la più solida e vera delle mie passioni: quella per i libri e per la scrittura. Per le parole, a ben pensarci. Nel mio silenzio, ho ritrovato l’amore per le parole. Silenzio. Amore. Parole. Ecco che di nuovo tutto torna. E dunque, ho aperto un blog di libri.

            Siccome mia madre mi aveva ben presto insegnato a fare il caffè, da bambina; in età adulta ne sono diventata una gran consumatrice. A ben pensarci, questa sua propensione al rituale lento e assiduo della bevanda poteva riallacciarsi alle sue origini meridionali: al Sud il rito del caffè è pressoché sacro, ed è molto legato alla conversazione, tra donne ma non solo. E c’è da dire che anche la mia città, Torino, è famosa per i suoi bellissimi caffè storici, dove qualche volta sono state prese importanti decisioni politiche, dove gli scrittori del passato andavano a rifugiarsi per comporre le loro opere migliori o per incontrare gli amici.

            Ho messo insieme senza troppa premeditazione queste due nature finalmente simili, e ho deciso di chiamare questo blog: Tazzina-di-caffè. Sarebbe stato un blog di libri. La mia passione primordiale. Un bookblog! Prendevo i romanzi che avevo letto e che mi avevano appassionata, toglievo la polvere che il tempo e la trascuratezza stavano formando su di loro, li fotografavo con sopra una tazzina di caffè fumante e caricavo tutto su questo spazio virtuale. Mi piaceva conferire un tocco vintage e materico alla cosa, non limitandomi a pubblicare le copertine in vettoriale che cominciavano a popolare i blog del momento. Che erano ancora pochi rispetto alla moltitudine di oggi…

            Hanno cominciato a leggerlo in molti. Era come se questa abitudine quasi quotidiana del caffè e del libro attirasse l’attenzione. E questo mi teneva incollata allo schermo. Cominciavo a rendermi conto che qualcuno, là fuori, aspettava i miei commenti, le mie parole. Aspettava me.

            Quindi non ero più solo una figlia. Una strana mamma all’incontrario. Ero anche una persona, ero Noemi che si era inventata il suo linguaggio. In un certo senso ero sempre mamma, ma questa volta di me stessa. Effettivamente, mi sentivo rinascere.

            Quella del rinascere è stata una sensazione di una potenza clamorosa per me. Potessi, la ri-sperimenterei ogni giorno! Mi ha dato fiducia, speranza. E il processo non si è più arrestato. Perché le energie liberate con il blog mi hanno permesso di mettere a punto un romanzo vero e proprio, dall’inizio alla fine. Un romanzo che si chiama Il metodo della bomba atomica, non per caso. Il metodo che dà il titolo al libro riguarda proprio l’uscire di casa. Dall’immobilità che a volte gli spazi domestici inducono al nostro cuore. Il fidanzato della protagonista che, come me (in alcuni punti la storia è autobiografica), si occupa di una mamma in difficoltà, le chiede di immaginare che in casa ci sia una bomba atomica. Di figurarsela, per avere qualcosa da cui scappare. Ma tra i protagonisti del mio libro c’è anche il cuore come metafora delle emozioni, e come muscolo. Tutta l’esperienza che ho vissuto, compreso lo spavento per i disturbi al cuore di mia madre, ha cambiato segno, è confluita come un liquido, in qualcosa di altro, in un “prodotto” fatto e finito, che si può toccare, comprare, regalare. E, ora che ci penso, a una delle prime presentazioni radiofoniche del libro un’attrice molto brava aveva letto proprio Il segno sul muro di Virginia Woolf : senza dubbio un racconto cui resterò sempre molto legata, un racconto del destino.

            Questo passaggio mi ha permesso di crescere. Di rendere un po’ più concreto il mio mondo interiore. Di trasformare il mio linguaggio in materia per poi mettermi in relazione con gli altri. Con cui farmi riconoscere come individuo. In questo senso, ora la mia lingua-madre sono io. Il segno che porto sul cuore, quello di quella voce mutevole, che si è trasformata negli anni, fino a farsi silenziosa, e infine ricominciare da capo, certo, non se ne andrà mai più. Come un segno profondo sul muro, che a guardarlo bene, però, come nel racconto di Virginia Woolf, si rivela vivo e simbolico come una chiocciola. Il cuore che portiamo nel petto è inevitabilmente segnato da quella lingua, generato da lei. Ma al tempo stesso, sto cominciando a sentirmi sempre più libera. E la mia personale libertà di parola si esprime in un eloquio tutto mio, creato da me, con la sommatoria di tutte le mie esperienze, fragilità, valori, speranze, fallimenti e talenti. Non escludo che anche la mia lingua possa cambiare, anzi segretamente me lo auguro.

            Sogno che le mie parole possano trasformarsi in emozioni e contestualmente in lavoro e denaro. Perché desidero che questa incessante e insieme dolce fatica mi permetta a mia volta di nutrire me stessa e le persone cui voglio bene.

           

 

 

 


[1]    Virginia Woolf, Saggi, prose, racconti (Il segno sul muro), Arnoldo Mondadori Editore

[2]    Marianne Moore, Le poesie, Biblioteca Adelphi

[3]    Ibidem