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Ricordando le vittime di Lampedusa Un racconto tratto da Lingua Madre Duemilatredici

Scritto da Segreteria il 03 Ottobre 2014

Ricordiamo tutte le vittime e tra loro le tante donne morte nel naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, con un racconto tratto da Lingua Madre Duemilatredici (Edizioni SEB27):

(…) Il barcone è sempre più vicino agli scogli, l’impatto è orrendo e devastante, ho il cuore in gola, per davvero lo sento palpitare proprio lì: e pensare che fino a quel momento avevo sempre creduto che quello fosse soltanto un modo di dire!
Uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. La paura è grande e sperando che sia tutto finito, accenno una preghiera di ringraziamento: «Dio mio, spero che questo non si ripeta mai più nella mia vita…», ma non immagino minimamente quello che ancora mi aspetta.
Improvvisamente siamo catapultati letteralmente in mare: i più fortunati rimangono attaccati al barcone, altri sono ormai in balìa delle onde… E molti di noi non sanno nuotare.
Solo grazie all’aiuto della guardia costiera e dei volontari che si prodigano tirandoci fuori dall’acqua, io, i miei fratelli, mia sorella e mio padre ce la caviamo (….).
La mia mamma, la mia giovane e bellissima mamma… Non la rivedrò mai più.
(….)  Ogni notte sogno la mamma che mi chiede aiuto e non riesco mai a tirarla fuori dall’acqua, scompare sempre tra le onde… Ma se imparo a nuotare, un giorno riuscirò finalmente a salvarla.

Il volo era durato appena venti minuti, Pantelleria vista dall’alto aveva la forma di un rene umano, ma la cosa più inquietante è che appariva piccolissima: non avrei mai creduto che il pilota, dopo averci miracolato evitando con cura i cocuzzoli delle montagne limitrofe, sarebbe anche riuscito a centrare quella pista così piccola da ricordare le portaerei in uso durante la Seconda guerra mondiale!
Non sapevo dove andare, ma non mi preoccupavo più di tanto: mi avevano detto che per giungere alla scuola del paese, sarebbe stato sufficiente chiedere un passaggio ad uno di quei panteschi molto disponibili che passano casualmente dalle parti dell’aeroporto proprio all’ora degli arrivi, e che per soli cinque o dieci euro ti fanno il “favore” di accompagnarti in macchina, persino davanti alla scuola.
In effetti, in 5 minuti ero già arrivata. Dopo le pratiche di segreteria e le presentazioni col personale della scuola e con il Preside, al suono della campanella finalmente era giunto il momento di entrare in classe.
Per rompere il ghiaccio cominciai a presentarmi scrivendo il mio nome sulla lavagna e parlando un po’ di me. Ero riuscita ad attirare la loro attenzione, adesso toccava a loro presentarsi. Mentre i più audaci facevano a gomitate nel contendersi la parola, non poté passare inosservata, seduta al primo banco della fila centrale, una ragazza dagli occhi grandi e scuri: era magrolina, ben vestita e sembrava molto riservata.
La presentazione della classe procedeva rapida e ordinata: tutti volevano fare bella figura!
Dulcis in fundo toccò a Keréne, la ragazza al primo banco, che timidamente sorrise e dopo un paio di tentativi, lodevoli ma buffi, rinunciò alla sua impresa.
I compagni mi spiegarono che non parlava bene l’italiano perché era arrivata in Italia da pochi mesi.
La mattina seguente, misi sul banco di Keréne il dizionario di francese. Avevo un’intera classe da seguire e non avrei potuto dedicare troppo tempo a lei, che comunque sembrava aver gradito la novità.
Per sondare la classe e le eventuali lacune grammaticali, decisi di assegnare un tema.
Volendo dare a tutti la possibilità di scrivere senza problemi, scelsi un titolo “aperto”:
«Una giornata indimenticabile…»
Keréne, si tuffò sul dizionario e per due lunghe ore non staccò mai gli occhi dal foglio. Tutti si fermarono per la ricreazione, ma lei, caparbia, continuò a scrivere. Quella che per tutti gli altri era la lingua madre per lei era un ostacolo da dover aggirare!
A fine giornata, dopo aver ritirato tutti gli elaborati, mi avviai verso casa.
Tra un panino e un caffè, cominciai la correzione dei temi della III B.
In quei fogli c’era di tutto: da Disneyland alle Piramidi, dal primo bacio alla Play-Station II.
Ma ad un tratto il registro cambiò: il tema di Keréne si presentava con una grafia pulita ed ordinata…
“Sono nata in Congo, giunta a Pantelleria per caso: ho una sorella poco più grande di me e tre fratellini piccoli e vivaci. Mia mamma è sempre riuscita a far fronte a tutte le esigenze familiari: è una donna in gamba e non si è tirata indietro quando papà le ha proposto di spostarsi più a nord nella speranza di garantire a noi un futuro migliore. Mio papà è un insegnante di francese ed ha deciso di raggiungere la Libia per migliorare le aspettative di vita dell’intera famiglia: lì ci sono scuole che meglio retribuiscono i loro docenti. Così decidiamo di partire, il viaggio è lungo ma ne vale la pena. Giunti lì ci inseriamo molto bene: siamo una famiglia numerosa, benestante e felice. Tutto sembra aver preso una giusta piega ma nell’aria c’è un nuovo fermento di libertà: sta per iniziare la “primavera araba”, che per noi è semplicemente un’altra guerra. Dopo giorni di terrore sotto i bombardamenti, papà decide di partire per l’Italia, trovando posto su uno di quei famigerati barconi che solcano copiosi il Mediterraneo. Siamo in sette e quindi paghiamo una somma ingente, ma, a differenza di tanti altri disperati, papà ha i soldi per acquistare i biglietti. Nel cuore della notte, nascondendoci dalla sorveglianza militare armata, riusciamo ad imbarcarci e, tra lo schianto delle bombe ed altre mille paure, a prendere il largo.
Il mare sembra agevolare la nostra fuga, il vento è buono.
Oggi è mercoledì 13 aprile 2011, sono le 5:00.
Il sole non è ancora sorto, attorno c’è buio fitto, dopo cinque giorni di navigazione qualcuno dice che siamo vicini ad uno scoglio: no, non è uno scoglio, è Pantelleria.
Il mare è agitatissimo e ci fa sbattere l’uno contro l’altro; il barcone, carico di 192 persone, sembra impazzito, sbattuto da onde minacciose che ci sommergono da tutti i lati.
Il barcone è sempre più vicino agli scogli, l’impatto è orrendo e devastante, ho il cuore in gola, per davvero lo sento palpitare proprio lì: e pensare che fino a quel momento avevo sempre creduto che quello fosse soltanto un modo di dire!
Uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. La paura è grande e sperando che sia tutto finito, accenno una preghiera di ringraziamento: «Dio mio, spero che questo non si ripeta mai più nella mia vita…», ma non immagino minimamente quello che ancora mi aspetta.
Improvvisamente siamo catapultati letteralmente in mare: i più fortunati rimangono attaccati al barcone, altri sono ormai in balìa delle onde… E molti di noi non sanno nuotare.
Solo grazie all’aiuto della guardia costiera e dei volontari che si prodigano tirandoci fuori dall’acqua, io, i miei fratelli, mia sorella e mio padre ce la caviamo.
La mia mamma purtroppo no! Lei non ce la fa… Non sa nuotare e le onde non le lasciano scampo. Forse se avessi saputo nuotare l’avrei potuta salvare io. Il dolore, lo sconforto, sono grandissimi. L’inferno non può essere peggio di questo, ed io ci sono stata!
Nel frattempo perdo i sensi, vengo salvata a fatica: ho promesso alla mamma che saremmo rimasti tutti uniti e che mi sarei occupata dei bambini.
Ci ricoverano per alcuni giorni in ospedale; gli abitanti della piccola isola non ci fanno mancare nulla; i medici, appena possibile, ci portano in obitorio per salutare per l’ultima volta la mamma. I nostri cuori sono straziati dal dolore, sono ferite difficili da rimarginare, ti segnano la vita, anzi te ne tolgono anche un po’.
La mia mamma, la mia giovane e bellissima mamma… Non la rivedrò mai più.
Devo però aiutare i miei fratellini che forse soffrono più di me.
Al funerale ci sono tante persone, i militari, il sindaco e tutti i superstiti alla sciagura.
Appena dimessi dall’ospedale, una famiglia ci ospita nella propria abitazione: stiamo bene con Giuseppina e Mariano, ci trattano come figli, non dimenticherò mai la loro accoglienza.
Nel mese di maggio andiamo a Trapani per ricevere i documenti necessari alla nostra permanenza a Pantelleria. Al nostro ritorno da Trapani ci sistemiamo in una casa che papà ha preso in affitto.
Io e mia sorella Aicha, anche se di diverse età, ci iscriviamo a scuola: purtroppo ci inseriscono in terza media perché non abbiamo con noi alcuna attestazione scolastica; i miei fratellini Vianì e Raìs alla scuola elementare, ed il piccolo Ernest all’asilo.
Col passare dei giorni conosciamo tanti ragazzi e ragazze. I primi momenti a scuola sono difficili, non riusciamo a comunicare con gli altri e ho tante difficoltà anche nel relazionarmi con i professori.
Mi piacerebbe un giorno continuare i miei studi frequentando l’università, vorrei studiare per poter realizzare il mio sogno che è quello di diventare una pediatra per aiutare i bambini a crescere e per soccorrere coloro che hanno più bisogno. Un giorno tornerò nella mia Africa per dare una mano ai più bisognosi”.
Avevo letto quel tema tutto d’un fiato, asciugandomi di continuo gli occhi per riuscire a decifrare le parole che si sfocavano dentro le mie lacrime.
Un senso di colpa mi assalì improvvisamente pensando alla sofferenza che le avevo procurato assegnando la stesura di quel tema.
D’improvviso mi sembrò di vedere i suoi occhi limpidi, trasparenti e pieni di luce.
Con il passare dei giorni, osservavo i progressi che faceva la piccola Keréne: si impegnava moltissimo, stava mettendo a frutto la sua intelligenza ma ancora di più la sua voglia di vivere. Ogni giorno, tornando a casa, pensavo a lei ed a come avrei potuto aiutarla senza sembrare invadente. Non perché avesse bisogno d’aiuto materiale, quello non le mancava, era ben voluta da tutti. Keréne aveva bisogno d’amore, di un abbraccio, di una carezza, di una parola affettuosa. Lo scorso giugno ha conseguito la licenza media col massimo dei voti.
Quest’estate è venuta a casa mia in vacanza: pur avendo terrore del mare, ha desiderato fortemente che le insegnassi a nuotare…
Mi ha detto: «Prof, sogno ogni notte la mamma che mi chiede aiuto e non riesco mai a tirarla fuori dall’acqua, scompare sempre tra le onde… Ma se imparo a nuotare, un giorno riuscirò finalmente a salvarla».
L’ho abbracciata piangendo, ma lei scostandosi mi ha stretto le mani e guardandomi intensamente, mi ha sorriso.

Maria Enrica Sanna e Keréne Fuamba
CON GLI OCCHI DI KERÉNE
in Lingua Madre Duemilatredici. Racconti di donne straniere in Italia (Ediìzioni SEB27)