Le autrici di Lingua Madre

"Acqua è donna" L'articolo di Clara Rizzitelli

Scritto da Segreteria il 19 Settembre 2012

Di Clara Rizzitelli

[articolo pubblicato sul numero 37 (anno 9, settembre 2012) di El-Ghibli la rivista online di letteratura della migrazione]

Acqua è vita. Acqua è nascita e generazione. Acqua è purificazione. Acqua è nomade e migrante. Acqua è donna.
L’acqua è fonte di vita dell’esperienza biologica e umana, elemento senza il quale l’intera esistenza non sarebbe stata, non sarebbe e non sarà possibile. Ci sembra di dire un’ovvietà, ma è necessario partire da questa semplice constatazione per realizzare come tale consapevolezza abbia da sempre connotato l’acqua quale indispensabile elemento simbolico, e non solamente naturale, della vicenda umana. La fortissima carica che l’acqua-elemento naturale ha assunto a favore di una sua riformulazione in acqua-elemento simbolico, ci spinge ad affermare che la storia dell’umanità è altrettanto parallela e imprescindibile dalla riflessione che l’umanità stessa ha fatto su di sé a partire dalla sua relazione con l’acqua.
Non stupisce, dunque, che l’acqua abbia conferito la vita non solo all’essere biologico, ma anche all’essere spirituale e filosofico. L’acqua quale elemento primigenio ha connotato gli universi simbolici e mitologici delle più lontane e diverse esperienze antropologiche: si ritiene di poter sostenere che l’acqua è, a tutti gli effetti, madre e unificatrice dell’umanità nella sua interezza.
Non stupisce, ugualmente, che l’acqua quale elemento simbolico e lessicale sia declinato al femminile per l’automatica identificazione con la sua funzione generatrice. Nella lingua sumera antica, ad esempio, “a” significa al contempo “acqua” e “generazione”, mentre il padre della filosofia greca Talete riconosce nell’acqua l’origine del cosmo, quella famosa archè il cui genere non può che essere femminile. Parallelamente, il sostantivo mantiene peculiarmente la sua declinazione femminile nella maggioranza delle lingue indoeuropee, mentre innumerevoli sono le personificazioni femminili di spiriti e divinità legate all’acqua – basti pensare, tra i tanti esempi, alla dea del Gange per l’induismo, alle Ninfe della mitologia greca o alla dea azteca Chalchiutlique di sorgenti e corsi d’acqua.
Il mito della Grande Madre, divinità delle acque il cui nome viene dato ai grandi fiumi che irrigano e fecondano la terra, è d’altra parte comune alle antiche religioni dell’India, della Persia e dell’Europa orientale, come dimostra Elisabeth Badinter nei suoi studi sulle civiltà preelleniche1. La studiosa illustra come millenni di storia, in un arco di tempo che va dall’Alto Neolitico fino all’Età del Bronzo, siano stati caratterizzati in vaste aree geografiche del mondo dal culto della Grande Dea che incarna il Tutto della creazione; e come, in questo lungo periodo di preminenza della spiritualità femminile e del suo ruolo magico-religioso legato alla facoltà procreatrice, il dato biologico e quello intellettuale non siano mai stati considerati distinti, bensì complementari: la preminenza della risorsa generatrice non si è trasformata in potere di un sesso nei confronti dell’altro, come avverrà invece con il passaggio alla cultura patriarcale. Ripercorrendo la storia sociale della maternità, è Adrienne Rich2 ad evidenziare come il bisogno di controllo del corpo fertile delle donne sia nato per rovesciare il potere che queste avevano posseduto per millenni grazie alla loro potenza procreativa, vista come metafora della creazione stessa di tutto ciò che è vivente – in altre parole, vitale come l’acqua.
L’amalgama tra il femminile e il naturale, che si installa permanentemente nella filosofia greca antica attraverso un meccanismo di trasposizione delle osservazioni della natura alla procreazione umana, concretizza infine il processo di messa in “superfluità” della donna per afferrare l’eternità e sconfiggere la morte3. Come ci spiega Adriana Caravero, la donna, insieme alla natura, diventa pura materia destinata a morire, così come la nascita di cui è portatrice è atta a generare corpi mortali; la vera vita, quella superiore, può al contrario essere generata dagli uomini filosofi e politici, che costruendo la filosofia come mimesis della maternità diventano i soli capaci di dar vita a idee e discorsi destinati all’immortalità4.
A partire da questo momento, l’associazione tra acqua – e natura in senso più ampio – e donna quali fonti di vita materiale ha permesso la dominazione della prima e lo sfruttamento della seconda in una maniera pressoché incontrollata. È proprio il campo degli interessi gemelli di ecologia e femminismo che ha mobilitato l’ecofemminismo5 attorno ad un approccio concettuale che ha messo in evidenza il collegamento simbolico e culturale tra donne e natura: Rosemary Radford ragione/emozione, mente/corpo, cultura/natura e uomo/donna, abbia permesso che gli uomini avessero un potere innato sia sulle donne che sulla natura, giustificandone una dominazione legittima rafforzata da religione, filosofia, sovrastrutture e simboli culturali. In questa corrente, sulla scia di Arendt e Irigaray, è recentemente Ina Praetorius6 ad evidenziare la necessità di recuperare un’economia della natalità, nella consapevolezza che non c’è vita senza una matrice fatta d’aria, d’acqua e terra, così come di affetti, parole e riconoscimenti.
Carica di una tale valenza simbolica generatrice, l’acqua diventa topos letterario fondamentale e fondativo, luogo reale e immaginario attorno al quale si costruiscono identità e coscienza del sé. Espediente narrativo di nascita e riflessione, non stupisce – se ci è consentito continuare a ragionare su evidenze che ci appaiono significative – che le donne abbiano colto la potenza di questa entità materna e simbolica e vi si siano riconosciute. In una parola, immerse.
Non ci sembra un caso, ad esempio, che Virginia Woolf si trovi su quel famoso ponte – che Maria Zambrano definisce “figura innamorante, figura terapeutica che consente l’elevazione dal flusso della propria esistenza e la sospensione dallo stato di 7 – nel momento in cui getta consapevolmente le basi di quella che sarebbe diventata la teoria della differenza sessuale. È in sospeso sul Tamigi che guarda l’affaccendarsi degli uomini nei luoghi del potere politico, economico e religioso, e risponde alla richiesta rivoltale dal segretario di un’associazione antifascista di agire in prima persona per scongiurare la guerra mondiale alle porte. E la risposta, concreta e letteraria, della scrittrice non può che essere proferita sul fiume, luogo di intuizioni e rivelazioni:
“Ci troviamo qui su questo ponte per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci intorno a quel corteo e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre. Questo infatti dobbiamo domandarci senza indugi: abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso? E, soprattutto, dove ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?
[…] Ma è chiaro che la risposta alla vostra richiesta non può che essere una: il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare parole nuove e inventare nuovi metodi”8.
È dunque su un fiume che nasce quello che Luisa Muraro definisce il “gioco di accomunare e differenziare, gioco profondo e preciso che dà vita al pensiero della differenza sessuale”9. E proprio da quel luogo, proseguendo, scaturisce il “linguaggio che era fatto per significare l’universalità di un soggetto e che lei [Virginia Woolf] sa far diventare linguaggio della differenza: così non fa decadere la lotta delle donne in una lotta settoriale”10.
Ed è questo linguaggio a permeare lo spirito del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, in cui la narrazione delle donne, straniere e italiane, diventa esperienza di sé, per poter accomunare e differenziare.
Continuando a parlare di evidenze, anche in questo caso non stupisce che l’acqua sia tematica pregnante dei racconti delle autrici, vero e proprio percorso tematico attraverso le antologie e, di conseguenza, attraverso le identità, le culture e le età. La forza generatrice e unificatrice dell’acqua-elemento simbolico emerge dirompente nella pratica della scrittura del sé al femminile, quale spontaneo e immediato riconoscimento del legame materno e simbolico che quasi inconsapevolmente ogni donna (e ogni scrittrice) intesse con tale espediente narrativo.
Si incontra così la simbologia dei fiumi vivi e misteriosamente gioiosi, custodi di antichi segreti che solo alle donne possono venire parzialmente svelati e che da queste sono gelosamente tramandati attraverso generazioni femminili facendosi tramite del simbolico materno; come ci racconta la nigeriana Sonia Aimiuwu: “[la mia bisnonna] parlava dei misteri dei fiumi vivi intorno alle foreste, diceva che i fiumi cantavano, suonavano e ballavano e si poteva ascoltare e assistere a questo meraviglioso e misterioso spettacolo senza fare alcun genere di rumore altrimenti tutto smetteva. Per me il racconto era misterioso ma per lei era vero, perché lei si riteneva la figlia del mare perciò ogni volta, soprattutto la sera quando andava per festeggiare le dee dell’acqua, manifestava la sua presenza suonando, cantando e danzando”11.
Un simbolico materno che sembra non prevedere ingerenze da parte degli uomini, come ci rivela Sandra Johnson, di provenienza liberiana, quando scrive che “nei racconti di mia madre c’è spesso il fiume. Mia madre raccontava che quando le donne andavano al mercato, si passava davanti al fiume; esse lasciavano i bambini, anche quelli piccolissimi, e quando si ritornava il fiume aveva lavato i bambini. E poi, un giorno, un uomo curioso del perché questo accadesse, si appostò vicino al fiume a guardare. Il fiume se ne accorse e si arrabbiò”12. O ancora, in una metafora di rivendicazione della differenza, nelle parole della ghanese Herrety Kessiwaah “ci sono due fiumi nelle storie che mi raccontavano da piccola. Sono due fiumi di due colori diversi, scorrono vicini. Un giorno un uomo ha preso un po’ d’acqua da un fiume e l’ha messo nell’altro. Quest’uomo è stato trasformato in albero”13.
Nello stesso modo, l’autrice di origine senegalese Aminata Aidara racchiude il potente misticismo e la consapevolezza di un simbolico materno, entrambi da scoprire e proteggere, quando descrive Mami Wata, la bellissima e potentissima regina delle acque che la protagonista del racconto ha imparato a conoscere attraverso le confessioni di sua madre: “«Non dimenticare mai chi sei», le aveva detto la madre dopo l’iniziazione. Ma lei, in fondo, aveva sempre avuto paura del suo potere. Quando faceva le offerte alla divinità, da bambina, aveva paura che da un momento all’altro qualcuno del villaggio la vedesse e andasse a riferire tutto a suo padre. Ma temeva anche Mami Wata, perché una sua zia materna le aveva raccontato che la dea, a volte, amava così tanto i suoi servitori da ingoiarli per intero, nei flutti d’acqua. E lei, proprio per questo, non aveva mai voluto imparare a nuotare e poneva il cibo sull’argine del fiume, lasciando che fossero le onde a portarlo via”14.
L’acqua, nei racconti delle autrici, si fa portatrice di vita e vita stessa. In linea con Antoinette Fouque, che attraverso il concetto di “contratto umano”15 arriva a formulare un’etica della procreazione che superi il contratto naturale e che ponga come elemento primigenio il corpo della donna, il liquido amniotico diviene per il genere umano ciò che l’acqua rappresenta per la sopravvivenza della vita. Come l’acqua, inoltre, anche il liquido amniotico è sottoposto ad un pericoloso inquinamento sulle cui conseguenze è necessario e urgente riflettere. Il corpo materno, sostiene la studiosa, è “il primo luogo circostante, il primo ambiente naturale e culturale, fisiologico e mentale, carnale e verbale. È il primo mondo che accoglie (o rifiuta), in cui si forma, si crea, cresce l’essere umano. […] Così come l’ecologia tenta di stabilire un contratto dei diritti e dei doveri tra l’essere umano e la natura, il contratto umano dovrebbe permettere di stabilire nuovi diritti e nuovi doveri tra uomini e donne, ma anche tra gli uni e gli altri e quei soggetti transitori che sono i bambini”16.
È tale profonda consapevolezza che ci viene trasmessa attraverso le parole delle autrici del Concorso, in un continuum lucido e spontaneo sintomo di un intimo sapere in grado di travalicare i confini e le culture. La russa Evguenia Kniazeva ci propone l’immagine di un parto accompagnata, fisicamente e simbolicamente, dal fiume e dalla coscienza di una genealogia femminile, quando ci racconta che “il parto fu lungo e doloroso. La sua coscienza oscurata sembrava essersi distaccata dal corpo. In un istante si trovò sulla rive di un fiume. Era un fiume largo, con l’acqua torbida. Piccole case in legno, un grande ponte in lontananza. Una delle case era quella di sua nonna”17. Allo stesso modo, è Yolanda Parra, di origine colombiana, a spiegarci come la sua vita sia indissolubilmente legata all’acqua e al fiume Arari, perché “il mio ombelico fu piantato sulla riva di questo fiume, sono arrivata al mondo in una notte di pioggia e di fiumi straripati. Non lo sapevo nemmeno, mia mamma mi ha raccontato questa storia all’età di quarant’anni, e soltanto allora capii il perché dei miei viaggi costanti. Adoro essere portata dalla corrente Sempreviva di questo fiume che a mia insaputa mi ha fatto abitare due oceani”18.
La simbolizzazione di acqua e maternità permea le narrazioni e le rappresentazioni del corpo materno, in una semiotica autonoma e spontanea degna delle intuizioni di Julia Kristeva. Il biologico ed il simbolico si fondono nel luogo dove regna l’inconscio e l’animale diventa soggetto parlante, ossia il ventre materno19. Proprio come il triangolo con il vertice in basso, che secondo gli studi dell’antropologa Giti Thadani20 rappresenta la yoni – la vulva, lo scorrere dell’acqua e l’origine della vita – l’autrice Laila Wadia, di provenienza indiana, ci racconta di “un caldo ventre liquido, dove il linguaggio si scioglie fino a diventare brodo primordiale”21, mentre Carla Macoggi di origine etiope ci restituisce l’immagine di una gestazione in cui la figlia nel ventre materno “muoveva in modo alternato le gambe e agitava le braccia, perché era contenta di essere capitata lì in quel mare caldo”22. Le italiane Monica Regis ed Elena Traversa ci accompagnano infine in un piccolo viaggio nelle misteriose profondità del ventre materno, una fiaba in cui le diverse soggettività di madre e creatura entrano in contatto e dialogano, in uno scambio continuo e reciproco che vede il bambino o la bambina (che sarà) comunicare dalla “sua culla liquida e avvolgente in cui cerca la profonda quiete che le appartiene”23.
Accanto alla tematizzazione generatrice, nei racconti delle donne migranti emerge con forza un altro fondamentale topos letterario legato all’acqua e alla loro condizione di soggetti nomadi, parafrasando Rosi Braidotti24. Nell’esperienza della migrazione il mare diventa luogo di incontri e di abbandoni, metro di sogni e di distanze, placido aiutante di un desiderio di rivalsa o temibile avversario dai tratti vendicativi. Nel racconto dell’autrice brasiliana Rosana Crispim da Costa, la protagonista narra al figlio le favole indigene del suo paese, abitate da preghiere nei confronti delle divinità della natura; gli rivela anche di come sia stato il mare Ye a preparare il suo arrivo nel ventre materno, attraverso il dialogo che la donna ha saputo intessere con il mare: “Seduta sugli scogli, nella zona del porto, chiusi gli occhi e chiesi: «Mare Ye, per favore, mandami un bel bambino con un sorriso largo e due occhi grandi». In quel momento il mare Ye cominciò ad agitarsi come se lo avessi svegliato. La brezza baciò il mio viso e ascoltai: «Pazienza, devi avere pazienza»”25. L’autrice di origine statunitense Lily Prigioniero ci restituisce, invece, un’efficace metafora di un’immigrazione il cui destino è retto e influenzato dalle correnti oceaniche quando ci confessa che “sembra come se la mia esistenza fosse nata nel seme dell’immigrazione che vola fra un oceano e l’altro, e vedo che la corrente mi porta di nuovo dove, in qualche lontano pezzettino della storia dei miei antenati, c’è seppellito un cordone ombelicale”26. O ancora, quando la peruviana Karen Jara Peña descrive il distacco dalla madre attraverso l’immagine della profondità marina, il dolore incolmabile di un’assenza lacerante che non sembra ammettere giustificazioni: “Mia mamma scoppia in lacrime per questo mio gesto, ma lei non capisce che la pugnalata al cuore che mi ha dato è grande, profonda, più profonda di qualsiasi mare e di qualsiasi oceano messo lì a separarci, a separare i due continenti sui quali avevamo vissuto separate per cinque anni!”27.
Il mare si fa materia e assume una corporeità che entra in relazione con il corpo vivo e presente della donna, in una sorta di rapporto amoroso e conflittuale. È l’autrice ucraina Tetyana Gordiyenko a intessere magistralmente questo rapporto, con delicata e intensa disinvoltura: “L’oceano mi catturò tra le sue braccia. Nessun abbraccio è mai stato così forte, nessun corpo è stato per me così amabile. Il sale entrò nella mia bocca, lo deglutii. Mi mancò il respiro, si spinse dentro di me. L’acqua mi sommerse, il fondale scuro emise un sussurro e mi chiamò con la voce bassa di mille conchiglie. […] Lo spessore dell’acqua premeva sul mio ventre, urtava le punte dei miei seni. Aprii le braccia. Il mio cuore batteva a ritmo delle onde. «Mia», mi disse il fondale”28.
Infine, l’acqua nelle narrazioni al femminile diventa rito, purificazione, metafora di vita. Irina Isajeva, di provenienza uzbeka, ci racconta come la danza femminile turkmena sia una celebrazione della preziosa acqua del deserto: “Le fanciulle vanno a riempire le loro brocche d’acqua alla sorgente, la quale rappresenta il luogo degli incontri romantici degli innamorati e dove le ragazze si scambiano i propri segreti. […] Nella musica che accompagna questa danza si sente il gorgoglio del ruscello con l’acqua gelida che scende dalla montagna”29. Nel racconto dell’autrice bosniaca Semsa Nadarevic, l’acqua diventa il modo per scongiurare la guerra, per lavare via e cancellare le tracce brutali di un’umanità disumana; perciò “la mattina, dopo colazione, ho voluto fare un bel bagnetto a Mery. Volevo che lei viaggiasse pulita, quasi per strapparle di dosso l’odore, la paura della guerra e la tristezza per la separazione. Per me era come se fosse l’ultimo bagnetto che le facevo. Così, nella quiete del nostro bagno, ho potuto versare tutte le lacrime che ancora mi restavano. Fu un pianto di dolore struggente, non sopportavo l’idea di perderla, forse per sempre”30. L’acqua è presente anche nei momenti più drammatici di una certa esperienza femminile, quando ogni volontà di purificazione sembra divenire futile giustificazione: è quello che ci racconta l’autrice somala Alia Sharif Aghil in “I ricordi della mia terra”31 a proposito del rito della circoncisione.
Ma l’amalgama forse più significativo e rappresentativo della condizione del migrante con l’espediente narrativo dell’acqua ci viene restituito dall’autrice Guergana Radeva, di provenienza bulgara, che con una lucida, semplice e brillante similitudine riesce a trasmettere l’insensatezza dei confini come metodo di classificazione, come frammentazione di un’umanità che dovrebbe sempre e ovunque riconoscersi come tale: “Ti senti trascinare dalla folla in movimento, ami tuffarti nei suoi colori e odori che scompigliano l’artificiosa perfezione del terminal inondato di luce algida, ma soprattutto ami bagnarti nei suoni d’ogni dove. Attraverso il linguaggio, l’uomo perde coscienza di sé, l’ego nasce per contrasto e vive per confronto, e smarrirsi nel brusio multilingue della folla è come smettere momentaneamente di essere ciottolo liscio e anonimo rivoltato dalle correnti sonore. Poi, al punto di controllo, il fiume umano si placa, catturato e incanalato. Cittadini UE a destra. Cittadini non UE a sinistra. Il rivolo davanti a te scorre svelto e senza ostacoli, dovresti esserne lieta e invece sbirci la fila parallela con aria vagamente colpevole e una disagevole impressione di trovarti fuori posto, quell’assurda sensazione di non conformità che ti assale ogni volta che stai per attraversare una frontiera”32.
L’acqua, in conclusione, si costituisce come soggetto autonomo attraverso la scrittura ed il linguaggio delle donne, che danno vita all’acqua come questa l’ha loro donata. Sono le donne a rivendicare un intimo e interiore legame con l’elemento primigenio, perché entrambi portatrici di vita e di un ordine simbolico da cui è necessario partire per riappropriarsi della propria soggettività, situarsi e rivendicare. Perché, come in assenza di acqua, la vita in condizioni di superfluità33 non può più essere ammessa.

1 Badinter, E., L’Uno e l’Altra. Sulle relazioni tra l’uomo e la donna, Longanesi, Milano 1993.

2 Rich, A., Nato di donna, Garzanti, Milano 1977.

3 Songe-Møller, V., Materia, genere e morte in Aristotele, in Donne e filosofia, a cura di Marsonet, M., Erga Edizioni, Genova 2011, pp.12-19.

4 Caravero, A., La cancellazione del femminile. La cultura “omosessuale”, in Il femminile negato, Pazzini, Rimini 2007, pp. 56-66.

5 Finocchi, D., Voce Ecofemminismo, in Glossario. Lessico della differenza, a cura di Ribero, A., Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Regione Piemonte 2007, pp. 80-84.

6 Praetorius, I., Penelope a Davos, Idee femministe per un’economia globale, Quaderni di Via Dogana, Milano 2011.

7 Ragazzi, F., Da figlio a padre, in Procreare la vita, filosofare la morte, a cura di Ribero, A., Il Poligrafo, Padova 2011, pp. 245-261.

8 Woolf, V., Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 91-92 e p. 188.

9 Muraro, L. Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, Orthotes Editrice, Napoli 2011, p. 35.

10 Ibidem.

11 Aimiuwu, S., Lettera dall’Italia, in Lingua Madre Duemilasei. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2006, pp. 23-26.

12 Johnson, S., Sandra e il cuore verde, in Lingua Madre Duemilaotto. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2008, pp. 111-115.

13 Kessiwaah, H., Nanà, in ibidem, pp. 116-120. Terzo premio Concorso letterario nazionale “Lingua Madre” 2008.

14 Aidara, A., Alla bocca del sogno, in Lingua Madre Duemiladieci. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2010, pp. 15-24.

15 Fouque, A., Per un nuovo contratto umano, in I sessi sono due, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1999, pp. 77-81.

16 Ibidem. 17 Kniazeva, E., Marina, in Lingua Madre Duemilanove. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2009, pp. 133-138.

18 Parra, Y., Sogni di mais, in ibidem, pp. 201-207.

19 Kristeva, J., Il corpo materno, in Maternità e imperialismo, Donnawomanfemme, 1978, pp. 117-119.

20 Thadani, G., Sakhiyani. Lesbian desire in ancient and modern India, Cassell, London 1996.

21 Wadia, L., Ascoltare il silenzio, in Lingua Madre Duemiladodici. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2012, pp. 284-292.

22 Macoggi, L., Luna, in Lingua Madre Duemilanove. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2009, pp. 170-175.

23 Regis, M., Traversa, E., Mondo Tondo, in Lingua Madre Duemiladodici. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2012, pp. 213-216.

24 Braidotti, R., Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma 1995.

25 Crispim da Costa, R., Pazienza, Lingua Madre Duemilasette. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2007, pp. 35-40. Primo premio Concorso letterario nazionale “Lingua Madre” 2007.

26 Prigioniero, L., Seme volante, in Lingua Madre Duemilaotto. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2008, pp. 209-213.

27 Jara Peña, K., Crash, in Lingua Madre Duemilanove. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2009, pp. 119-121.

28 Gordiyenko, T., Torta leggera al cioccolato, in Lingua Madre Duemiladieci. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2010, pp. 89-95.

29 Isajeva, I., Ciao, Irina!, in Lingua Madre Duemilaundici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2011, pp. 80-82.

30 Isajeva, I., Ciao, Irina!, in Lingua Madre Duemilaundici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2011, pp. 80-82.

31 Nadarevic, S., Neve amara, in Lingua Madre Duemiladieci. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2010, pp. 188-194.

32 Sharif Aghil, A., I ricordi della mia terra, in Lingua Madre Duemilasei. Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2006, pp. 159-167.

33 Radeva, G., Sconfini, in Lingua Madre Duemilaundici, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni SEB 27, Torino 2011, pp. 178-182. Primo premio Concorso letterario nazionale “Lingua Madre” 2011.

34 Muraro, L. Tre lezioni sulla differenza sessuale e altri scritti, Orthotes Editrice, Napoli 2011.