Appuntamenti

"Scatti… integranti" di Davide Folli I racconti del laboratorio al Liceo Gobetti

Scritto da Segreteria il 07 Maggio 2010

Continuiamo a pubblicare i racconti delle ragazze e dei ragazzi del Liceo Gobetti che hanno partecipato insieme alle loro insegnanti Cristina Bracchi e Patrizia Moretti ai laboratori di narrazione e scrittura organizzati dal Concorso Lingua Madre.

Ecco il quinto racconto:

Scatti…integranti
Di Davide Folli
(Classe III C)

 Quando ero piccolo vivevo a Pescara, una cittadina sulla costa abruzzese. Questa è la città dove sono nato. Parlavo e sentivo i discorsi dei più anziani con molta attenzione: narravano di viaggi su pescherecci, che con grandi fatiche ed impegno portavano a casa grandi pescate di calamari, che allora – ero proprio piccolino – mi sembravano degli esseri giganti, e quindi ne rimanevo affascinato. Vedevo i miei antenati come degli eroi, che sconfiggevano queste grandi bestie e le portavano poi a casa per fare delle grandi mangiate.  A volte le storie erano un po’ più tristi, si sentiva di qualche nave che, presa da una tempesta, era stata portata via e raramente i marinai erano tornati a casa. Tutti avevano delle facce molto cupe, ed io me ne andavo e tornavo a divertirmi. Una volta diventato più grandicello, andavo già alle elementari, ascoltavo ancora queste grandi storie e continuavo a rimanerne affascinato; ma un giorno, una storia molto triste, di un’intera famiglia che si era persa in mare – tutta la famiglia era stata inghiottita dal mare tranne il nonno che, attaccandosi ad un pezzo di legno della barca, si era salvato ed era arrivato a casa – mi colpì molto, ed io me ne andai sul molo appena costruito a pensare e a guardare il mare. Era già buio ed ero molto stanco e, così, mi addormentai. La mattina, molto presto, c’era il sole che stava sorgendo, fui svegliato dai miei genitori che mi avevano cercato tutta la notte. Avevo tanta paura di averli fatti arrabbiare, ma loro mi strinsero forte e mi portarono a casa. La mattina avevo ancora molto impresso il momento, ero rimasto colpito sì dalla felicità con cui mi ritrovarono i miei genitori, ma c’era qualcos’altro che mi era rimasto nella mente, ma non ricordavo bene. Poi mi venne in mente. Dal punto del molo in cui mi ero addormentato, si vedeva un “travocche”, una costruzione che serviva per pescare e che avevo sempre sentito chiamare così, con lo sfondo del sole che sorgeva dal mare. Mi piaceva molto questa immagine e decisi di immortalarla su di una pellicola. Così, la mattina seguente, io e tutta la famiglia ci recammo sul molo per fare quella foto. Era la mia prima foto, era venuta molto bene e tutti mi facevano i complimenti. Così continuai a fare tanti altri scatti della mia città e a tutti piacevano molto: come a me, anche a loro, suscitavano dei bei ricordi di esperienze vissute nella propria città. Poco tempo dopo, ormai la costruzione del grande molo era terminata già da tempo, mio papà rimase senza lavoro. Era un muratore e di grandi costruzioni da realizzare in città non ce n’erano più. Non riusciva a trovare un lavoro che gli permettesse di mantenere tutta la famiglia. Erano tutti molto pesanti e non gli permettevano di stare con noi neanche un momento nella giornata, partiva la mattina e tornava la sera tardi. Così decise di andare a cercare lavoro al Nord. Si fermò a Torino, una città che stava subendo una grande immigrazione: c’era bisogno di un gran numero di nuove case, una situazione perfetta per poter riprendere il suo lavoro.
Per un paio di anni ci mandava i soldi di cui avevamo bisogno e, non appena ne aveva la possibilità, tornava per passare anche solo una giorno con noi. Quando finii le scuole elementari, i miei genitori decisero che anche io e mia mamma saremmo andati a Torino.
Quando sono partito ero molto triste perché lasciavo i luoghi della mia infanzia, i miei amici, i miei parenti, ma ero anche felice perché stavo raggiungendo mio padre, ero sicuro che avrei trovato altri compagni di scuola e che lui mi avrebbe aiutato in questo momento particolare.
Facemmo un lungo viaggio in treno, io non avevo mai fatto lunghi viaggi, al massimo andavo a trovare i miei zii che vivono in un paesino tra le montagne del Gran Sasso. Le ore sembravano non finire mai, anche se otto ore di viaggio, erano lunghe come una giornata di scuola. A scuola mi divertivo molto con i miei compagni, mentre sul treno ero molto triste, perché avevo dovuto salutare tutti e non sapevo bene a cosa andavo incontro. Quando il treno arrivò, ci trovammo in un grande stazione, non conoscevamo nessuno, e sapevamo che la gente del posto aveva molti pregiudizi per chi arrivava, come noi, da regioni più a sud. Avevamo paura di chiedere quale filobus prendere per raggiungere la casa dove avremmo abitato da quel giorno in poi. Ci facemmo coraggio e chiedemmo ad un signore, che sembrava avere un’aria molto cortese. Questi ci indicò la strada trattandoci con molta gentilezza. Dall’accento di mia mamma capì da dove venivamo. Ci disse che aveva un ristorante e che se ogni tanto volevamo andare a mangiare lì, ci avrebbe fatto un po’ di pecora “alla callara”. Allora scomparve tutto il timore dai nostri visi: capimmo che, come noi, veniva dall’Abruzzo. Mia madre e quel signore si misero a parlare per un po’ in quel dialetto che ho sentito poche altre volte in questa grande città. Lo capivo anch’io e lo parlavo, ma a volte con qualche difficoltà. Arrivammo a casa, dove c’era il mio papà che ci aspettava. Ci fece una gran festa, era molto contento, lo eravamo anche noi. A Torino ritrovai la mia famiglia unita, un papà che poteva starmi vicino dopo il lavoro, nei momenti di bisogno. Per festeggiare, mi madre cucinò una zuppa di pesce, un piatto che ricordava a tutti noi la città da cui venivamo. A settembre sono andato nella nuova scuola, dove ho conosciuto i miei nuovi compagni. I miei genitori mi avevano rassicurato che avrei incontrato persone che mi avrebbero aiutato ad integrarmi in questa città così diversa da Pescara, che non mi avrebbero fatto sentire diverso da loro.
Nella mia nuova classe ho trovato alcune di queste persone: la professoressa e pochi compagni mi trattavano come loro, come una persona. Ma c’erano alcuni compagni che non mi trattavano così bene. Non volevano mai parlare con me e quando c’era da fare qualcosa in gruppo, questi mi escludevano sempre. Ho scoperto che ad alcuni dei compagni con cui parlavo, piaceva far foto. Così abbiamo deciso di portare le nostre fotografie per vederle insieme. Su una fotografia non c’è scritto il nome di chi la fa. Gli altri compagni, che quasi mai parlavano con me, che non volevano accettarmi, erano rimasti molto stupiti dalle foto che avevo fatto nella mia città, dicevano che erano tutte molto belle, che erano le più belle foto tra tutte quelle portate quel giorno a scuola. Quando chiesero chi le aveva fatte, dopo aver fatto tutti quei complimenti all’ignoto fotografo, ho detto che ero stato io e loro si sentirono molto in colpa per come mi avevano trattato. Dal giorno dopo, tutti mi trattarono meglio. Quel fatto li aveva fatti sentir davvero in colpa per avermi escluso per tutto quel tempo, quasi sei mesi. Ora sono passati diversi anni da quel giorno, quel giorno in cui, le mie fotografie, i miei scatti, mi hanno fatto accettare come una persona come tutte le altre. Ho continuato a fare molti altri scatti, a volte vincendo anche qualche bel premio. E quando sento la mancanza dei miei parenti, della mia casa, dei posti in cui ho vissuto da piccolo e che vado a trovare ogni estate, vado a rileggermi questi versi di un poeta che, dalla mia città, si è fatto conoscere in tutta Italia. Sono dei versi che mi fanno venire in mente molti ricordi, perché riassumono l’essenza del posto in cui sono nato.

 Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natía
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?

(“I Pastori” di Gabriele D’Annunzio) 

Davide Folli
Classe III C
Liceo Scientifico Gobetti