Le autrici di Lingua Madre

Yahmina e la sua storia

Scritto da Segreteria il 05 Maggio 2010

Continuiamo a pubblicare i racconti delle ragazze e dei ragazzi del Liceo Gobetti che hanno partecipato insieme alle loro insegnanti Cristina Bracchi e Patrizia Moretti ai laboratori di narrazione e scrittura organizzati dal Concorso Lingua Madre.

Ecco il terzo racconto:

Yahmina e la sua storia
Di Chiara Campagnola
(Classe I C)

Un giorno Yahminah rientrò a casa e vide suo padre che stava prendendo dei soldi dal cassetto dei risparmi. Quando gli chiese spiegazioni, scoprì che stava per partire. Era entrato in politica nel 1975, un anno dopo la caduta del regime di Hailè Selassiè, e lavorava per l’ELF, il Fronte di Liberazione Eritreo. Gli Etiopi avevano catturato un suo collega, l’avevano torturato e costretto a fare dei nomi. E fra questi c’era il suo. Fortunatamente un amico di famiglia era venuto a saperlo e l’aveva avvisato.
«Devo andare via. Se riesco a superare il confine mi ospiterà Rahsaan. Te lo ricordi, Rahsaan? Vive in Sudan. Ti farò avere mie notizie appena potrò. Se hai bisogno di aiuto chiedi alla famiglia di Afya.», aveva detto a Yahminah, prima di salutarla ed andarsene. Così scappò, di punto in bianco, senza preavviso, e Yahminah si ritrovò da sola a diciassette anni. Sua madre era morta per un tumore e tutto ciò che le restava erano gli amici e qualche parente. La famiglia di Afya si offrì di ospitarla almeno per un po’, giusto per non farla dormire da sola in casa.
Yahminah attese delle notizie del padre che non arrivarono mai. «Se riesco a superare il confine» aveva detto. Non ce l’aveva fatta, evidentemente.
Cominciò a mettere da parte i soldi che guadagnava con dei piccoli lavoretti e, tre mesi dopo la partenza del padre, decise che avrebbe provato ad andare in Italia, perché alcuni amici le avevano detto che si viveva bene. Così se ne andò dall’Eritrea, come molti avevano fatto prima di lei, lasciando tutto ciò che aveva. Un autista etiopico la aiutò a superare il confine con il Sudan nascosta fra i bagagli di un camion. Arrivata lì, pagò diversi passaggi fino ad Al-Kufrah, in Libia, dove si accorse di non avere denaro sufficiente per continuare il viaggio. Riuscì ad imbarcarsi clandestinamente per l’Albania, dove si rifugiò da una vecchia amica di famiglia scappata dall’Eritrea tempo prima. L’amica le prestò un po’ di denaro per arrivare in Italia e la fece stare in casa sua per qualche giorno. Un paio di notti dopo, Yahminah partì per Brindisi su una barca. Erano in molti, tutti schiacciati, e dovevano fare silenzio.
Yahminah aveva l’impressione che la barca dovesse capovolgersi da un momento all’altro e un po’ di volte temette di aver sbagliato ad andarsene dal suo paese, ma si faceva forza pensando che quello era uno degli ultimi ostacoli che avrebbe dovuto superare per arrivare in Italia. Aveva paura perché ovunque si voltasse vedeva solo acqua. Quando aveva attraversato il deserto, lo aveva fatto nascosta dentro a un camion e non aveva potuto vedere l’infinita distesa di sabbia che la circondava. Ora invece poteva persino sentire l’odore del mare. Arrivarono a Brindisi di giorno, ma attesero la notte per attraccare in una spiaggetta non troppo in vista. La maggior parte di loro dormì dove riuscì e alcuni partirono il giorno dopo verso Roma, nascosti in un tir.
Così Yahminah si ritrovò per l’ennesima volta chiusa in un camion. L’aria era soffocante e non avevano neanche un po’ di cibo o un po’ d’acqua. Saranno stati una decina, più un paio di bambini che se ne stavano accoccolati accanto alle rispettive madri. Tutti loro speravano di riuscire a costruirsi un futuro migliore e di trovare un luogo migliore di quello che avevano lasciato.
Una volta arrivata a Roma, Yahminah aveva sperato di riuscire in qualche modo a trovare una maniera per tirare avanti. Invece si ritrovò a non sapere cosa fare, senza un centesimo in tasca, in un paese che non era il suo, dove si parlava una lingua che non era la sua. Suo padre le aveva insegnato un po’ di inglese, ma questo non la aiutò. Passò qualche settimana a dormire nei parchi e a rubacchiare dai mercati. Una volte le sembrò che un fruttivendolo l’avesse vista mentre rubava due arance e si spaventò, ma lui fece finta di niente. Provò a presentarsi ad un annuncio di lavoro che aveva visto su un giornale dimenticato su una panchina: cercavano qualcuno che sapesse lavare, stirare e pulire la casa, ma appena videro che era nera e che, per di più, non sapeva l’italiano, le chiusero la porta in faccia e ci mancò poco che non chiamassero la polizia. Poi, un giorno, Yahminah incontrò per caso un’altra eritrea (la quale aveva la cittadinanza italiana) che si offrì di farla dormire in una stanza di casa sua a patto che appena si fosse trovata un lavoro le avesse pagato l’affitto. Una settimana dopo trovò lavoro a casa di un uomo. Svolgeva le faccende di casa dalle 8 alle 13 e veniva pagata quindicimila lire al giorno, una miseria. L’uomo la trattava male: in un modo o nell’altro ci teneva a farle sempre presente che non era ben accetta e che lui la faceva lavorare solo perché aveva bisogno di qualcuno da poter pagare poco. Yahminah non osava ribellarsi perché quel lavoro era la sua unica fonte di guadagno e inoltre, se avesse chiesto una paga più alta, l’uomo avrebbe potuto decidere di denunciarla. Cominciò così a lavorare e a pagare l’affitto della stanza all’altra eritrea: centottantamila lire al mese. Dopo un po’ trovò lavoro in un locale. Lavorava dalle 24 alle 4 di mattina per trentacinquemila lire. Pian piano imparò un po’ di italiano e si comprò dei vestiti nuovi per fare una buona impressione sulle persone. In realtà non servì a molto: passava le mattine a lavare, stendere e cucinare, i pomeriggi a dormire perché poi la notte doveva lavorare. Un giorno la sua ospite le disse che doveva liberare la stanza perché di lì a qualche settimana sarebbe arrivata sua sorella e ne aveva bisogno. Yahminah trovò per trecentomila lire al mese un piccolissimo appartamento che doveva condividere con altri due emigrati. Non aveva amici e viveva nel costante terrore che qualcuno la denunciasse. A volte rimpiangeva l’Eritrea e tutte le persone che le volevano bene e che erano rimaste là nonostante la guerra. Passò parecchi anni passando da un lavoro a un altro, da un appartamento a un altro, senza mai sentirsi veramente accettata. Poi sposò un uomo che non amava e che conosceva da pochi mesi, ma così almeno riuscì ad ottenere la cittadinanza italiana. Passato un po’ di tempo, il marito cominciò a essere insopportabile e a pretendere che lei gli facesse quasi da schiava, così, quattro anni dopo il matrimonio, divorziarono. Yahminah trovò un lavoro regolare in una sartoria e il pomeriggio cominciò a impegnarsi come volontaria in un’organizzazione a supporto degli africani.  

Chiara Campagnola
1 C
Liceo Scientifico “P. Gobetti”
Torino